Il ritorno di Razo – Storytelling a Poggibonsi

Dopo la recente uscita del numero “Zero”, ecco l’uscita del numero 1 della Newsletter di EMAiA.
Seguite quest’iniziativa in cui si riceca il connubio tra archeologia sperimentale, storytelling, reenactment e living history in coordinamento con le istituzioni.
Una grande operazione di Archeologia Pubblica.

Domenica 7 dicembre 2014 molti dei membri di E.M.A.i.A hanno partecipato a “Il ritorno di Razo”, presso l’Archeodromo di Poggibonsi (SI).
Una ventina di persone hanno dato vita al villaggio di IX secolo, facendo attività dentro e fuori la grande casa padronale (la longhouse) ed hanno accolto il dominus al suo ritorno dalle guerre di re Carlo.
E’ stata una riuscita operazione di storytelling, nella quale si è raccontato uno scenario credibile ma probabilmente mai avvenuto.
Lo storytelling infatti ci ha dato modo di parlare degli inizi del IX secolo a tutto tondo, tramite il racconto delle storie di guerra dell’804 contro gli Avari, ricordando le campagne passate contro i Sassoni, descrivendo la figura di Carlo Magno, inserendo come ospiti i vicini Lombardi di Staggia venuti a salutare Razo.
Ripetiamo: un evento di per sè immaginario ma che ci ha permesso di far fare al pubblico presente un’esperienza immersa nella materialità della Storia e far conoscere all’interno di un unico racconto sia la realtà del contesto in cui si è svolta l’iniziativa, sia la vita ed i rapporti gerarchici in essere, sia grandi fatti (l’histoire evenementielle…) sia vicende locali.
Contrariamente a quanto annunciato nel programma, per cause di forza maggiore, i Winileod non sono potuti essere presenti ma la musica ed i canti non sono mancati ugualmente.Crediamo di aver fatto una buona operazione ed alcuni commenti ricevuti in rete ci hanno confermato il centramento degli obiettivi.
Ne riportiamo uno (omettendo l’autore) che ci ha particolarmente gratificati e materializzato il vero fine dello storytelling e della living history:
“È stato un bel pomeriggio di cronache storiche e personaggi divertenti. Brevi pezzi del nostro passato! Oltretutto ci son stati anche ospiti da oltre l’Arno… che è, comunque, molto più piccolo del danubio.
Sempre piccole e semplici cose che affascinano i bimbi e incuriosiscono i genitori”.
Grazie.

Pubblichiamo di seguito il documento preparatorio della giornata, diviso in 4 capitoli.
Speriamo vi possano essere utili.

1. Lo sfondo da narrare e in cui narrare

(per lo scavo di Poggibonsi si veda, con amplia bibliografia, Marco Valenti, L’indagine archeologica, in Riccardo Francovich-Marco Valenti (a cura di). Poggio Imperiale a Poggibonsi. Il territorio, lo scavo, il parco, pp. 83-213, Milano, Silvana Editoriale, 2007).

 

a – La natura del contesto

Poggibonsi appartiene alla categoria di quei centri in cui il controllo signorile è molto evidente sia nelle caratteristiche dell’insediamento, che ad esso viene conformato, sia nelle restituzioni materiali. Le strutture d’età carolingia nascono da una nuova ridefinizione urbanistica dell’abitato intorno ad un grande edificio tipo longhouse. Lo spazio circostante fu organizzato con annessi, strutture di servizio e magazzini per la raccolta di derrate; gli animali erano custoditi all’interno del centro e le attività artigianali venivano svolte sotto il diretto controllo del proprietario. La sua presenza pare testimoniata da reperti che ne rivelano l’identità cioè una lancia, una punta di freccia, elementi della bardatura di un cavallo: doveva quindi trattarsi di un miles dotato di cavalli (come evidenziano anche le restituzioni osteologiche) che traeva sostentamento e profitto dall’azienda affidatagli in beneficio.

 

b – Urbanistica e trasformazione dell’insediamento 

Il villaggio di capanne è attestato in vita sino dalla seconda metà del VI secolo e nel corso del IX secolo le strutture dell’insediamento furono riorganizzate sulla base di un progetto imperniato sulla centralità di un grande edificio abitativo tipo longhouse, con magazzino interno per derrate alimentari. Da esso si dipartiva una lunga strada in terra battuta, affiancata da un edificio di servizio (destinato alla macellazione della carne che in essa veniva consumata), contornato da capanne di dimensioni minori, da una zona tipo corte, spazi destinati ad ospitare strutture artigianali (per esempio una fornace da ceramica ed una forgia da ferro) e per l’accumulo dei prodotti agricoli (un grande granaio), un’area aperta con contenitori ceramici infissi nel terreno, steccati (probabilmente un orto, concimaia e resti di attività rurali quotidiane. La distribuzione delle specie animali conferma la crescita delle attività agricole, quindi un probabile allargamento dello spazio coltivato, e la sostanziale tenuta delle pratiche allevatizie e pastorali che comunque si specializzano; perdura l’allevamento dei caprovini e decade invece quello dei suini, indicando un uso della selva meno decisivo nei processi produttivi, forse limitato alla sola raccolta di legna.

 

c –  La longhouse

Longhouse a forma di barca: edificio accuratamente pianificato, con un lato seminterrato e dimensioni di 17 x 8,5 m, occupante quindi uno spazio di 144 mq. Venne costruita scavandone la pianta sul terreno vergine in corrispondenza del lato lungo sud e dei lati brevi; per la parte nord fu sfruttato lo spazio che precedentemente ospitava altre capanne. Aveva uno scheletro in armatura di pali ed elevati in terra ed era soppalcata su uno dei lati.

Mostra una suddivisione in tre ambienti: zona domestica (8,50 x m 6,70), zona magazzino (6 x 3,60 m), zona ad uso misto (4,70 x 2,20 m).

L’ambiente domestico presentava un focolare ricavato su una base quadrangolare di terra  sormontata da un’incastellatura di almeno tre pali. A breve distanza veniva lavorato il grano come prova la macinella rinvenuta sul piano di calpestio e dove era stata inserita una pietra rettangolare, con incavo al centro del lato esterno per alloggio di un paletto atto a fare ruotare macine di piccole dimensioni; la farina era poi raccolta in una grande buca scavata ai piedi della pietra e delimitata da zeppe: al suo interno doveva trovare posto un recipiente ceramico od in legno. Il centro dell’ambiente risulta interamente tramezzato da una fila di piccoli paletti che fungevano da rinforzo al sistema di sostegno del tetto e sulla parte nord est, forse anche da appoggio per attrezzature artigianali: probabilmente un telaio in legno del tipo a due colonne, di cui sembrano fornire testimonianza due buche di medio-grandi dimensioni parallele ad altrettante piccole buche (alloggi per i montanti verticali) ed alcune fuseruole rinvenute in loro prossimità.

Una fila di paletti posta in orizzontale nella zona ovest separava poi lo spazio domestico dall’ambiente destinato a magazzino, dove liquidi e derrate alimentari venivano conservati in contenitori ceramici di grandi dimensioni alloggiati in buche poco profonde; i grani erano invece accumulati in due silos di forma cilindrica del diametro 1 m e con profondità 1,40 m circa. I paletti sui lati brevi sembrano essere stati coperti da stuoie vegetali o da paglia intrecciata; in corrispondenza del lato est una porta probabilmente in legno ha lasciato traccia in tre buche di piccole dimensioni disposte a “v” e in un taglio rettangolare che, formando uno scalino, fungeva da battente: la porta si apriva tirando in fuori. A fianco dell’accesso, nove piccole buche componenti una forma regolarmente quadrata (90 x 90 cm) sono interpretabili come traccia di un’infrastruttura di mobilio: sostegni di un piccolo granaio sopraelevato oppure l’ossatura di una sorta di armadietto realizzato in armatura di pali, diviso in ripiani attraverso tavole orizzontali ed accostato alla parete di terra? Alcune componenti del corredo domestico di stoviglieria dovevano essere poi riposte nello spazio tra la parete ovest e la cantonata della capanna (80 cm-1 m circa) come testimoniano i resti di olle e ciotole/coperchio rinvenutevi.

Il terzo ambiente era disposto sulla parte nord ovest e ricavato nello spazio restante tra magazzino e parete perimetrale, leggermente soprelevato rispetto alla zona domestica. Probabilmente privo di chiusura e quindi continuo con la navata nord della capanna, non sembra destinato ad usi particolari; presenta comunque una specie di piccolo pozzetto circolare, con pareti rivestite in pezzame di pietra e legante poverissimo (1,24 x 1,20 m; profondità individuata sino a 45 cm) interpretabile forse come luogo di conservazione per alimenti.

Quest’edificio ha mostrato, contrariamente alle altre capanne coeve, una notevole presenza di metalli, quantificabile in 110 reperti; si tratta per la maggior parte di chiodi e ganci da parete. I chiodi rinvenuti sono sia di grandi dimensioni con utilizzo nei lavori di carpenteria per la costruzione dell’edificio, sia, in numero cospicuo, di medie e piccole dimensioni probabile testimonianza di mobilio ed arredi in legno.

Per quanto riguarda lo strumentario superstite si sono rinvenuti un coltello, uno scalpello forse impiegato nella lavorazione del legno ed un paio di tenaglie da collegare alla lavorazione dei metalli; queste ultime, insieme ad alcune scorie da ferro presenti sui battuti, trovano una spiegazione nell’esistenza di una forgia posta a pochi metri di distanza dalla longhouse, della quale parleremo più avanti, ma che sembra controllata dalla famiglia dominante. Un ferro di mulo ed i molti chiodi da ferratura attestano la presenza di equidi.

L’abitazione era inoltre completata a sud est da un recinto in legno (2 x 5,50 m) forse destinato ad ospitare alcuni animali di piccola taglia, a nord invece da una grande e profonda buca circolare nella quale venivano smaltiti rifiuti organici (diametro 1,10 m, profondità 1 m). Una seconda ipotesi di lavoro vede nel piccolo recinto di paletti l’indizio di una struttura tipo pollaio; anche se propendiamo per la prima interpretazione, l’eventualità non è del tutto da scartare visto anche il grande numero di ossa relative a animali da cortile rinvenute sui battuti della grande capanna.

 

d – La corte aperta e le strutture artigianali

Area importante, perché qui si svolgeranno principalmente le nostre attività lavorative.

Immediatamente a nord della longhouse si estende uno spazio aperto di oltre 400 mq, delimitato a nord da una capanna abitativa, ad est da una tettoia/recinto per animali, a sud da due capanne di piccole dimensioni. Non esiste un limite chiaro ad ovest; l’allineamento di tutte le strutture lungo il percorso della strada bassomedievale può far supporre l’esistenza, fin dall’età carolingia, di una viabilità interna all’insediamento: in questo caso, delimiterebbe anche lo spazio aperto. Le numerose tracce relative ad attività, descritte di seguito, permettono di interpretare l’area come corte/aia.

La tettoia rettangolare (5,1 x 2,1 m) aveva probabilmente funzione di ricovero per animali; un allineamento regolare di pali immediatamente a sud può essere interpretato come recinto ancora collegato ad attività di allevamento; è anche possibile che la tettoia e l’allineamento descritti formino in realtà un’unica struttura di maggiori dimensioni.

Numerose buche di piccole dimensioni, sparse senza ordine nell’area, possono essere riconosciute come paletti temporanei.

Di più difficile interpretazione sono tre grosse buche nelle quali si sono rinvenuti frammenti di grandi contenitori ceramici: piccoli silos per la conservazione di derrate alimentari in recipienti o abbeveratoi collegati alla tettoia?

Una serie di buche di medio-piccole dimensioni che formano numerosi allineamenti sono distribuite nella parte centro-occidentale dello spazio aperto; si tratta con ogni probabilità di uno o più recinti con frequenti rifacimenti e cambiamenti di planimetria. Anche in questo caso le strutture sono funzionali al ricovero di animali. Immediatamente ad est, un’area di butto di circa 10 mq, contraddistinta dalla composizione fortemente organica dei suoli e da alcune buche di palo, può essere interpretata come letamaio o scarico di rifiuti legati alle attività agricole del villaggio.

Una diversa caratterizzazione sembra avere avuto la parte sud-ovest, dove alcune buche di forma irregolare e dimensioni maggiori (fino ad 1,2 m di diametro) e numerose buche di palo di modeste dimensioni, distribuite in ordine sparso su tutta lo spazio aperto, sono da riferirsi ad impianti temporanei collegati alle attività agricole e di allevamento (pali per legare gli animali, pagliai, cataste di legna, ecc). Almeno due focolari si collocano nella parte centrale dell’area, che insieme a varie chiazze d’argilla concotta, terra molto scura, terra con inclusi carboniosi e chiazze di calce (accumulo di intonaco impiegato nella costruzione di capanne?) testimoniano lo svolgimento di numerose operazioni.

Ad alcune decine di metri di distanza dalla corte aperta erano poste tre strutture artigianali: una capanna destinata alla macellazione ed alla lavorazione della carne consumata nella longhouse, una forgia da ferro ed una fornace da ceramica.

La capanna, costruita sull’immediato lato ovest della stessa longhouse, era una struttura molto semplice, a pianta rettangolare con un lato leggermente semiscavato e dimensioni medio-piccole (5,5 x 4,40 m); il lato nord ovest veniva delimitato da un taglio profondo 10-15 cm che, livellando il terreno, comportava un piano di calpestio leggermente seminterrato; i pali portanti erano dislocati regolarmente lungo il perimetro, fungendo da collegamento per elevati in terra e sostenendo una copertura a doppio spiovente del tipo Sparrendach: poggiava infatti su tre travi, uno di colmo impostato sui due pali contrapposti al centro dei lati corti e due laterali impostati sull’allineamento di pali dei lati maggiori. L’ingresso era ad escavazione e di forma rettangolare allungata (lunghezza 1,70 m; larghezza 94 cm). Al suo interno, oltre a chiodi e ganci da parete, si è rinvenuto un raschiatoio in ferro per la lavorazione delle pelli, quindi del cuoio, che ben si accordano con la funzione ipotizzata.

L’esistenza di una forgia, sugli spazi ad ovest, viene attestata da un allineamento di pali orientato nord-sud di circa 2,6 m, da un livello di frequentazione a tratti molto annerito, ricco di materiale organico, tracce di carbone e frammenti laterizi (dimensioni 4,1 x 4,3 m), di una buca nella parte sud dal diametro circa 1,30 m conservata solo parzialmente in quanto tagliata da un muro di epoca bassomedievale e contenente scorie. Lungo il lato nord del livello di frequentazione si collocava un taglio lineare interpretabile come una probabile canaletta da collegarsi alle attività artigianali. La forgia, con cappa realizzata tramite pietre e laterizi impastati con l’argilla, era quindi coperta da una tettoia ipotizzabile nelle dimensioni di 4 x 2 m, parzialmente chiusa da bassi muretti in terra con fondazione in pietra sui lati nord ed est.

Nelle sue immediate adiacenze, e sugli spazi in direzione della longhouse, sono state rinvenute numerose scorie e soprattutto una notevole presenza di chiodi da ferratura. La coincidenza tra questa struttura ed un grande aumento numerico degli oggetti metallici non sembra casuale. Il periodo carolingio è quello che infatti ha restituito la maggior parte dei reperti ed in cui sono attestate gran parte delle categorie funzionali.

La fornace per ceramica, sugli spazi a nord, era di forma cilindrica, costituita da una cupola di laterizi circondata da un rinforzo formato da pietre, ciottoli e altri laterizi frammentati; su due grandi conci di pietra ben squadrati e lavorati si impostava la bocca e le pareti mostrano vistose tracce di annerimento da fuoco.

Benchè si tratti del probabile riuso di un deposito per acqua di età tardoantica, gli elementi per la sua attribuzione interpretativa sono molto chiari e ad essi si aggiunge la presenza di frammenti di distanziatori in terracotta nonchè i numerosi strati di terra molto annerita che le si appoggiano. I livelli della struttura confermano il suo funzionamento in fase con la longhouse. Sembra essere stata destinata alla produzione di ceramica grezza di buona fattura come testimoniano due olle rinvenute al suo interno.

Esistevano quindi dei vasai nel villaggio ai quali la popolazione si riforniva e la cui produzione (come quella della forgia), per la stessa collocazione della struttura nell’area del dominico, sembra controllata dalla famiglia che abitava la longhouse. Il villaggio doveva comunque approvigionarsi anche in altri punti del territorio dei quali si riconosce l’esistenza nell’ampia varietà degli impasti impiegati per la foggiatura del vasellame e nella presenza di forme chiuse ad impasto depurato. Dove operassero tali vasai ancora attivi professionalmente non lo sappiamo (in città? sul territorio?); la loro presenza e l’esercizio di un’attività produttiva, pur se limitata a precise micro-aree, sembra però proporsi come una quasi certezza. Resta il dubbio sulla loro localizzazione e dove avvenisse materialmente la contrattazione e la vendita: luoghi di scambio comuni interzonali come piccoli mercati periodici o tipo fiere? venditori itineranti? approvvigionamento diretto alle fornaci?

Questo tipo di produzione, articolato cioè sulla presenza contemporanea di forni legati ai villaggi e piccoli centri specializzati operanti per una forma di commercio, è del resto indiziata dalla stessa circolazione di vetro. A Poggio Imperiale in particolare, il vetro è presente con una grande quantità di frammenti (riconducibili a bicchieri, bottiglie, forme aperte, calici e lampade), così articolati da permettere in molti casi una vera e propria tipologia che rimanda indubbiamente a fornaci specializzate. Non dobbiamo pensare comunque all’esistenza di imprenditorie industriali e di un sistema di distribuzione organizzato; questo tipo di circolazione delle ceramiche è invece derivato da un progressivo localismo delle produzioni.

 

e – Le altre capanne (non ancora ricostruite)

Le capanne destinate alla popolazione erano diverse dalla longhouse, avevano dimensioni più ridotte. Sono riconoscibili due tipi di edificio: a pianta rettangolare ed a pianta ellittica.

Le capanne rettangolari, avevano un’estensione media di circa 33 mq e dimensioni intorno ai 6,9 x 4,8 m. La struttura portante era costituita da un allineamento centrale e da pali perimetrali piuttosto regolari che denotano una buona qualità delle tecniche costruttive. La distanza intercorrente tra le buche perimetrali ed il rinvenimento di grandi e piccoli grumi di intonaco di capanna lasciano facilmente prospettare la presenza di elevati in terra che rivestivano lo scheletro delle strutture.

Le capanne di forma ellittica erano di piccole e medie dimensioni, occupavano uno spazio variabile fra 20 mq e 52-53 mq circa ed avevano elevati alloggiati in una trincea di fondazione; erano cioè costituiti da pali di media circonferenza inseriti all’interno di una canaletta scavata nel terreno: un tracciato con larghezza variabile tra 28-30 cm che ospitava anche terra di riempimento e pietre a zeppa. La copertura, a doppio spiovente, veniva sorretta internamente da pali con diametro di 25-30 cm, alternati a paletti con diametro di circa 15 cm, collocati sia regolarmente lungo il limite del battuto sia con disposizione caotica verso il centro; in altre parole il tetto veniva eretto sui pali più grandi destinati a sopportare il peso maggiore e rinforzato lateralmente. L’assenza di chiodi conferma un largo impiego di legacci vegetali e puntoni di legno.

Una delle capanne ellittiche era completata da recinzione esterna realizzata in paletti, probabilmente da leggere come limite di una piccola area ortiva, testimoniata da piccole buche in successione continua. In alcuni casi erano dotate di un focolare interno sottoforma di punto di fuoco appoggiato sul battuto e collocato in posizione laterale appena spostato verso il centro del piano di vita; all’esterno sono visibili spesso le tracce di un secondo focolare forse circoscritto in alcuni casi da pietre. Il primo punto di fuoco dovrebbe essere visto soprattutto in funzione del riscaldamento dell’ambiente, mentre il secondo, che restituisce spesso resti osteologici, sembra indicare un punto di cottura per cibi posto al di là dello spazio coperto.

Infine è attestato un unicum, la capanna seminterrata con pianta a «T», affacciata sulla strada che portava alla longhouse tramite un ingresso semiscavato (1 x 0,70 m) dotato di canaletta per lo scolo delle acque; si tratta di una struttura in armatura di pali, di pianta rettangolare irregolare e con dimensioni ricostruibili in 4 x 4 m. Il piano di calpestio, in battuto di terra, era seminterrato e posto allo stesso livello della strada. Si sono rinvenute due fasi di vita ed un probabile focolare nella parte sud ovest forse pertinente alla sola fase d’uso più antica. La struttura portante presenta qualche problema di interpretazione in quanto vi sono pali sia interni disposti irregolarmente sia pali esterni all’escavazione.

 

(Per le interpretazioni relative ai contesti di buche di palo si vedano Marco Valenti-Vittorio Fronza, Lo scavo di strutture in materiale deperibile. Griglie di riferimento per l’interpretazione di buche e di edifici, in Sauro Gelichi (a cura di), I Congresso Nazionale di Archeologia Medievale. Pisa, Auditorium del centro Studi della Cassa di Risparmio (ex Benedettine), 29/5/1997 – 31/5/1997, Firenze, pp. 172-177. Marco Valenti-Vittorio Fronza, L’utilizzo delle griglie di riferimento per lo scavo di contesti stratigrafici altomedievali: elaborazione di una soluzione informatica, in Gian Pietro Brogiolo (a cura di), II Congresso Nazionale di Archeologia Medievale. Brescia (Musei Civici, Chiesa di Santa Giulia), 28/9/2000 – 1/10/2000, Firenze 2000, pp. 21-27)

 

f – Alimentazione

L’alimentazione costituisce un forte elemento di riconoscimento sociale, di differenziazione di ruoli e posizione nel villaggio. Il consumo di carne si rivela quindi importante per individuare l’esistenza di rapporti di tipo gerarchico ed economico. Indicativo in tal senso è il tipo di distribuzione quasi piramidale che, nel caso di Poggibonsi, effettua la famiglia residente nella longhouse verso le famiglie delle capanne circostanti, con un ulteriore collegamento riconoscibile fra qualità della carne e diverso ruolo o posizione rivestiti dai riceventi.

L’alimentazione si propone come un segno di potere; il consumo dei tagli di bue qualitativamente migliori ed in notevoli quantità (provenienti da soggetti sia giovani sia anziani) appare come una prerogativa della famiglia dominante; ad esso si aggiungeva il cavallo, l’asino e particolari pennuti da cortile come l’oca.

Nella vicina capanna a “T”, si ritrovano, invece, tagli di seconda scelta ed in particolare quelli relativi alle estremità dei rispettivi segmenti anatomici che compongono gli arti sia anteriori che posteriori dell’animale, appartenenti a soggetti generalmente anziani. Infine, alle famiglie residenti nelle altre capanne erano riservati unicamente gli scarti e nella fattispecie le sole estremità degli arti. Anche il consumo di carne capriovina evidenzia anomalie associabili ad una diversa concezione della qualità e dei tagli.

Nella capanna ellittica vicina alla longhouse, per esempio, è attestata la presenza quasi assoluta di ossa dell’arto anteriore e nelle restanti abitazioni la distribuzione anatomica appare più omogenea. Era invece appannaggio quasi esclusivo della famiglia dominante la carne di capre e di pecore abbattute tra il primo ed il secondo anno di vita, mentre i soggetti più anziani venivano equamente distribuiti. Sintetizzando, la famiglia dominante mangiava molta carne di prima scelta e di tipo diversificato, i dipendenti più stretti accedevano a tagli di seconda scelta, il resto della popolazione a tagli di terza scelta. Anche la distribuzione delle spalle di maiale, presenti soprattutto nella longhouse, mostra un accentramento di tale “bene” ed una parziale redistribuzione fra gli stessi dipendenti.

Il tipo e la frequenza di consumo della carne sembra rappresentare realmente un lusso ed un segno chiaro di privilegio.

Dall’analisi delle dentizioni degli individui sepolti a Poggibonsi si evince con chiarezza che la dieta quotidiana della popolazione si basava su cibi non raffinati e carenti di minerali, quali calcio e ferro. Il grado di usura dentaria, rivela che gli alimenti consumati avevano un alto grado di abrasività ed erano soprattutto di origine vegetale, ricchi di fibre, costituiti per lo più da farinacei preparati grossolanamente con macine in pietra tenera i cui granuli residui provocavano delle sensibili smerigliature; in tale processo influiva anche la loro cottura attraverso vasellame di terracotta che, frantumandosi, lasciava residui duri.

L’ipotesi sembra essere confermata dalla constatazione di usura obliqua dei molari, dovuta all’utilizzo di una grande quantità e varietà di grani. Poveri sembrano inoltre gli apporti di origine animale e la carne doveva rappresentare una semplice integrazione, talvolta occasionale. La scarsità di carie (colpivano il 10% della popolazione) conferma ulteriormente un’alimentazione povera di zuccheri e ricca di fibre, caratterizzata da cibi duri e particolarmente abrasivi che producevano un’efficace detersione dentale.

Le ceramiche rinvenute negli scavi portano ulteriori puntelli al tipo di alimentazione tratteggiata. Per tutto l’alto medioevo la netta radicalizzazione della ceramica da fuoco, stigmatizzata dall’egemonica presenza di olle, si accompagna alla riduzione del vasellame da mensa.

Con il IX secolo poi, l’avvento di tipi da fuoco inediti come i piccoli tegami, segna indubbiamente una variazione nel carattere degli alimenti o nelle tecniche di cottura. Questo cambiamento, che richiese l’utilizzo dei nuovi recipienti ad impasto grezzo, sembra evidenziato anche da un impiego per cucina di boccali ad impasto depurato probabilmente per zuppe.

Quanto esposto, confrontato con il tipo di alimentazione che si rileva nelle fasi più antiche di Poggibonsi, porta altri elementi per la definizione della figura dominante del villaggio.

La dieta carnea delle famiglie di VIII secolo, quando una forma di controllo del popolamento e della produzione era appena agli inizi, risulta infatti generalmente molto più completa e variegata, senza distinzioni di qualità dei tagli e di età di abbattimento degli animali. Nel nostro caso, quindi, il consumo di carne acquista un valore socialmente distintivo e deve essere letto come uno degli indicatori, insieme agli altri elencati, rivelatori della presenza di una famiglia egemone, che anche sull’alimentazione mostra la propria condizione ed il proprio potere di controllo sugli uomini.

In alcuni casi le analisi archeozoologiche rivelano la presenza di canoni in natura. La riscossione di corresponsioni in carne lavorata si verifica a Poggibonsi dove sono presenti le sole spalle del maiale fra le restituzioni.

Le analisi archeobotaniche forniscono invece solo indicazioni indirette sull’esistenza di canoni in prodotti agricoli che sono riconoscibili soprattutto nella presenza delle strutture di accumulo (gli edifici destinati alla conservazione delle derrate agricole sembrano rappresentare un chiaro indizio del versamento di quote della produzione), mentre fanno luce sul tipo di agricoltura in atto sulla cui articolazione e programmazione c’è comunque ancora molto da lavorare per verificare o meno l’esistenza di politiche economiche progettate.

Un ulteriore aspetto comune a quasi tutti i contesti altomedievali toscani nei quali sono state effettuate analisi faunistiche è l’assenza o la bassissima percentuale di resti pertinenti ad animali selvatici, che rimandino quindi ad attività venatorie abituali.

Il dato sottolinea un uso limitato dei boschi, dove certamente si raccoglievano legna e frutti spontanei e si pascolavano gli animali ma dove non sembra libera la caccia, che potrebbe quindi rappresentare un diritto riservato alla famiglia dominante, un elemento distintivo e di prerogativa: a Montarrenti, per esempio, le uniche attestazioni di selvaggina provengono dall’area di sommità; allo stesso modo grandi quantitativi di ossa pertinenti ad animali selvatici sono attestate a Staggia nei depositi circoscritti dalla palizzata ed in seguito da un muro; a Miranduolo si osserva, all’interno degli spazi sommitali, una lavorazione di ossa e corni pertinenti ad animali cacciati.

Queste valutazioni portano a riconsiderare i rapporti tra classi egemoni e subalterne, in particolare l’ipotetico diritto dei contadini di cacciare nelle selve. La caccia, infatti, appare un’attività intimamente legata all’evoluzione della società altomedievale tanto da divenire un vero e proprio costume d’elite nel momento in cui si afferma la signoria territoriale.

L’evoluzione sembra iniziare dall’VIII-IX secolo, quando anche le fonti scritte attestano una sistematica preclusione delle foreste alle comunità rurali, sempre più avvertite come spazio riservato ai potenti e ai loro esercizi venatori. In toscana è particolarmente significativo il confronto con i campioni archeozoologici provenienti dai castelli, nei quali la percentuale di animali selvatici aumenta consistentemente.

Il caso di Campiglia M.ma, per esempio, esemplifica chiaramente il fenomeno. Nel corso dell’XI secolo, la comparsa delle specie selvatiche tra le restituzioni faunistiche (il cervo, il daino, il cinghiale, la lepre ed il tasso) pare coincidere con la trasformazione del villaggio in castello e con la probabile presenza di un rappresentante dell’aristocrazia militare, insediato dai Gherardeschi a controllo del centro e del territorio limitrofo; in tal senso è stata interpretata anche la ripartizione anatomica del cinghiale ed il riconoscimento di specie selvatiche di grossa taglia. A Miranduolo, agli inizi dell’XI secolo, in associazione alla prima cinta di pietra, che sostituì le fortificazioni in materiali deperibili, sono stati ritrovati consistenti resti di capriolo, assenti nelle stratigrafie precedenti.

 

(Per tutti i contesti citati si veda, con bibliografia, Marco Valenti, L’insediamento altomedievale delle campagne toscane. Paesaggi, popolamento e villaggi tra VI e X secolo, Biblioteca del Dipartimento di Archeologia e storia delle arti dell’Università di Siena – Sezione di Archeologia, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2004)

2. Ambientazione storica in cui ci muoviamo

a – Gli inizi del IX secolo

Siamo nell’804, a pochi decenni dalla conquista franca del Regno longobardo del 774. Il ducato di Tuscia fu da subito riorganizzato su base comitale e nel 781 venne inquadrato assieme agli altri territori ex-longobardi nel Regnum Italiae affidato a Pipino, sotto la tutela del padre Carlo Magno.

La conquista si distinse dalle due precedenti, la longobarda stessa ed ancor prima quella ostrogota, per non aver dato luogo alla migrazione di un popolo.

L’Italia venne invece controllata creando nuovi assetti politici e di potere attraverso una strategia di graduale sostituzione dei ceti dirigenti.

La Toscana non fece certo eccezione nello svolgimento di un simile progetto politico ed i cambiamenti ebbero inizio poco più di 20 anni dopo l’assoggettamento.

Le città continuarono ad essere affidate inizialmente a funzionari di origine longobarda; sono attestati per esempio a Lucca, Firenze e Chiusi: a Lucca il duca Tachiperto, legato strettamente a Desiderio, fu sostituito dal longobardo Allone; a Firenze troviamo attestato il longobardo Gudibrando; a Chiusi fu lasciato in carica il duca Ragimbaldo poi sostituito, dopo la congiura contro i franchi del 775, con il longobardo Reginaldo. Furono però presto rimpiazzati, già intorno all’800, da conti franchi; conosciamo per esempio Wicheramo nel 797 a Lucca, Amulrico dall’800 all’805, Adelperto prima metà dell’806 e Magenrado nella seconda metà dell’806 a Pistoia, Scrot nell’800 a Firenze.

L’organizzazione dei comitati toscani avvenne gradualmente; a Chiusi, Lucca, Firenze e Pistoia, che dovettero essere dedotti sino dall’inizio della dominazione franca, si aggiunsero dalla metà del IX secolo Arezzo con Aganone nell’819, Siena con Adelrad nell’883, Roselle con Ildebrando nell’853, Populonia attestata come centro di comitato ma senza menzione di un conte, nell’822 e Sovana con Stefano, figlio di Irfone o Iffone nell’833 poi probabilmente dall’853 sottoposta allo stesso conte di Roselle Ildebrando, mentre Pisa, Luni e Volterra erano definiti ancora come gastaldati ed afferivano a Lucca.

Il ceto dominante longobardo potè conservare la propria posizione sociale ed economica nelle funzioni amministrative minori e nella composizione dell’alto clero. L’affermazione dei nuovi funzionari fu pertanto difficoltosa ed in generale conosciamo molti dei loro nomi dai tentativi di costituire patrimoni privati spesso a scapito di beni pertinenti a vescovi ed abati.

 

(Si vedano per la Toscana con bibliografia: Marco Valenti, La Toscana prima e dopo il 774. I segni delle aristocrazie in ambito urbano e rurale, in Stefano Gasparri (ed.). 774, ipotesi su una transizione. Atti del seminario di Poggibonsi, 16-18 febbraio 2006. p. 221-261, Turnhout:Brepols 2008. ID. Aristocrazie ed élites deboli e forti nella Toscana tra VI e IX secolo, in Brogiolo Gian Pietro, Chavarria Alessandra (a cura di), Archeologia e società tra tardo antico e alto medioevo. 12 Seminario sul tardo antico e l’altomedioevo in Italia centro settentrionale, pp. 205-240, Mantova:SAP Società archeologica s.r.l, 2007

Fondamentale è ancora: Antonio Falce, La formazione storica della marca di Tuscia (secoli IX-X), Firenze 1930.

In generale due ottime sintesi sono ancora Giuseppe Albertoni,  L’Italia carolingia, Roma 1997; Paolo Cammarosano, Storie dell’Italia medievale. Dal VI all’XI secolo, Bari Laterza 2001, Infine si veda Andrea Puglia, Marca, marchio, comitatus, comes: spazio e potere in Tuscia nei secoli IX-XI, in Atti del seminario di studi “Dalla marca di Tuscia alla Toscana comunale” (Pisa, 10-12 giugno 2004), a cura di G. Petralia – M. Ronzani  – Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”.

 

b – Gli abitanti del villaggio

Il grosso della popolazione che impersoniamo lavorava per un personaggio di spicco, di origine franca, collegato alle nuove aristocrazie.

La vita che noi dobbiamo svolgere è di basso profilo; basata su ritmi lenti; tutti lavoreremo infatti “sotto padrone” e di conseguenza l’impegno non doveva essere allora come quello messo se lavorassimo per noi stessi.

Chi siamo?

Tranne il dominus, siamo contadini; tutti; contadini che sanno fare però anche altri mestieri. La documentazione dei Polittici carolingi francesi ma anche quella italiana (Bobbio, Santa Giulia ecc.) mostrano solo poche volte servi con specializzazione precipua e non a caso li citano esplicitamente.

Quindi siamo un gruppo di gente rurale che sa fare anche altre cose.

Le attività indicate dallo scavo sono elencate nei paragrafi precedenti. In questa fase del progetto però ne svolgiamo alcune (fabbro e cucina all’esterno – forgia e punto di fuoco nei pressi della capanna c1); ad esse aggiungeremo attività interne alla longhouse (riconosciute): tessitura, macinazione grano, conservazione derrate agricole) ed esterne: falegname e correggiaio (ipotetici ma attendibili), tintora (non attestata), produzione candele (non attestata).

In più si aggiunge un orto sperimentale con chiusura viva (paletti e ramaglie) ed attività agricole da cortile (risistemazione del pagliaio e del mucchio di concio).

Il dominus dovrà invece controllare i lavori, le scorte alimentari, riscuotere tributi. Questa è una parte importante, nel momento in cui passiamo dalle attività sperimentali alla “rappresentazione”. Fondamentale, per educare anche, sarà la riscossione dell’amiscere: ovvero il canone in spalle di maiale che il dominus riceve una volta all’anno. Possiamo aggiungere le quote di grano ed ortaggi che i contadini versano sempre al dominus (la riscossione avviene tramite processione dei contadini di fronte al signore ed il servo diretto del signore verificherà natura e quantità).

Inoltre dalla disposizione delle strutture produttive abbiamo ipotizzato la presenza di diritti di banno riguardanti l’attività fabbrile e la produzione di ceramica; si dovrà trovare il mondo di rappresentarli; almeno in questa fase in cui funziona soprattutto la forgia si dovrà “mettere in scena” il contadino che è obbligato a servirsi della forgia del signore.

Il dominus chi è?

Il dominus non è un personaggio di primissimo piano a livello assoluto; lui ha ricevuto questa azienda per poter mantenere un cavallo, il suo armamento e probabilmente un servo (tipo scudiero ma non proprio) e rispondere una volta all’anno alla chiamata alle armi.

E’ un padrone; i suoi contadini non sono più che strumenti di lavoro; il suo obiettivo è trarre il maggior profitto dalla azienda ricevuta.

Non deve essere inteso come un buon padrone, tutt’altro. Ma nelle rappresentazioni dei gesti che realizziamo si deve, lo sottolineo, evitare il macchiettistico (questo vale anche per i contadini).

 

(Un buon testo su questi argomenti, cioè sulla società nella quale ci inseriamo, è ancora Pierre Richè, La vita quotidiana nell’impero carolingio, Juvence, Santa Maria degli Angeli-Assisi, 1993 – ed orig. 1973. Restano ancora fondamentali le pagine del catalogo della splendida mostra parigina di Un villaggio al tempo di Carlo Magno: Remy Guadagnin (a cura di), Un village au temps de Charlemagne. Moines et paysans de l’abbaye de Saint-Denis du VII siecle à l’An Mil, Catalogo della mostra, Musée national des arts et traditions populaires, 29 novembre 1988-30 aprile 1989, Paris. Un’ottima sintesi della vita di villaggio sono ancora le pagine in Alessandro Barbero, Carlo Magno. Un padre dell’Europa, Storia e Società, Bari, 2000. Per la vita di una famiglia citiamo, e lo si farà anche più avanti per i nomi dei personaggi, Eileen Power, Vita nel Medioevo, traduzione di Lodovico Terzi, Torino, Einaudi 1966 – ed orig.  Medieval People, 1924).

 

c – Personaggi: i nomi

La scelta dei nomi è importante. Si è deciso di tendere verso l’ambiente e soprattutto la situazione che rappresentiamo e viviamo.

Tranne una persona che impersona il dominus, gli altri sono contadini e artigiani. Quindi i nomi sono decisi su queste basi ed in relazione ai testi ed alla documentazione esistente.

Sono disponibili al riguardo alcune fonti documentarie, essenzialmente dei Cartulari, che per l’Italia, in donazioni o contratti di compravendita, attestano le persone soggette ad obblighi od oggetto del contratto stesso, o confinatari.

Vicino alla nostra zona è disponibile il Cartulario della Berardenga edito in Eugenio Casanova (a cura di), Il Cartulario della Berardenga, Siena, 1927. Usato anche, e resta fondamentale, nella trattazione di Paolo Cammarosano, La famiglia dei Berardenghi. Contributo alla storia della società senese nei secoli XI-XIII, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, (Biblioteca degli Studi Medievali, VI), Spoleto, 1974

Uno dei documenti più belli qui contenuti ed a noi utilissomo è la fondazione del monastero femminile di Fontebona dell’867 (Cartulario della Berardenga LIII anno 867; donazione confermata nell’881 in Cartulario della Berardenga IV anno 881) fatta dal franco Winigis conte di Siena e sua moglie Rachilda. Il toponimo originario fu S. Salvatore di Fontebuona a Campi, talvolta Santi Salvatore e Alessandro a Fontebona, il toponimo attuale è Abbadia a Monastero in comune di Castelnuovo Berardenga. Winigis e Richilda provvidero a dotare la comunità di molti beni patrimoniali mobili e immobili.

Istituzione ecclesiastica di famiglia il monastero, decaduto nel tempo, agli inizi del secolo XI (Cartulario della Berardenga II anno 1003) fu rifondato e trasformato in cenobio maschile dai Berardenghi Ranieri e Berardo, figli di Berardo.

Il documento dell’867, quasi un’eccezione per l’epoca, riporta puntigliosamente tutto ciò che fa parte della donazione con tanto di località, persone, i loro nomi sino a figli e moglie ed anche la loro specializzazione.

Si tratta della citazione di persone vissute nella metà del IX secolo più vicine possibile, tra le esistenti, al nostro centro di IX-X secolo a Poggibonsi. Le due località distano infatti 54 km (9-10 ore a piedi).

Dalla sua analisi si vedono alcune caratteristiche del tipo di popolazione presente e principalmente ancora un forte uso di nomi germanici (di origine longobarda ma anche in alcuni casi ostrogota) insieme a quelli latini.

I nomi che ci siamo dati, in gran maggioranza, sono tratti da questa in carta che si trascrive a seguire.

Ci sono alcune eccezioni. Il domins Razo e il cilleraio-contadino Bodo.

Dario Ceppatelli interpreta il dominus. Il nome scelto corrisponde a Razo ed è tratto da documentazione d’archivio europea e non locale. Il perché di questa scelta sta nel fatto che vogliamo rappresentare un miles proveniente d’oltralpe. E’ infatti nostra volontà far passare l’immagine nota di quegli anni centrali del IX secolo, come sappiamo dalla storiografia, decisivi nel radicamento delle aristocrazia d’oltralpe franca nel regno d’Italia. Razo è, nelle nostre intenzioni, un guerriero legato ad un’esponente dell’alta élite franca; un membro del suo seguito se non un suo cliente.

Il nome Razo, nei Monumenta Germaniae Historica (MGH), è molto attestato in carte di poco posteriori al periodo che proponiamo in questa giornata. Nome che comunque non crediamo impossibile essere attestato anche precedentemente.

Così un Razo è citato in diversi documenti del X secolo, soprattutto di ambito  tedesco. Sugli MGH, ad esempio, fra le altre si trovano queste attestazioni:

 

1. Un Razo è citato in un diploma di Ottone II del 981
“In nomine sancte et individue trinitatis . Otto divina favente clemencia imperator augustus . Omnibus christiane religionis et imperialis ac regie excellencie fidelibus presentibus scilicet acque futuris per subiectum adhibiti scripti titulum patere volumus , qualiter nos dilecti fratris nostri Ottonis videlicet Alamannorum et Bauwarorum ducis votum piamque peticionem sequentes familiis que habitant in predio quod Razo quondam tradidit ad ecclesiam sancti Petri principis apostolorum in civitate Aschafaburg in honore ipsius constructam , in villa Ebermarestad dicta et in comitatu Hassii comitis ac pago qui dicitur Radinzgouui sito […]”

MGH,  Diplomatum regum et imperatorum Germaniae, Tomus VII: Ottonis II et III Diplomata, p. 277.
http://www.mgh.de/dmgh/resolving/MGH_DD_O_II_/_DD_O_III_S._277

 

2. Nell’Annalista Saxo sono citati diversi Razo; ad esempio, in riferimento a fatti del 996: “[…] Qui unum dumtaxat sedens annum in Italia obiit ibique sepultus est . Voluit quoque inperator Erponem t de Halberstat u et Razonem de Bremin v episcopali gradu sublimare , quibus oppressis gravi infirmitate pastoralem baculum in lecto iacentibus dedit , sed uterque sine unctione sacerdotali decessit . Hi quamvis iusti et pii , tamen inter episcopos debent nullatenus asscribi , quia in benedictione sacra his consortes fieri non valuerunt . Razo ille est , qui pape Benedicti ossa de Hammaburh Romam revexit […]”

MGH, Scriptores, Tomus XXXVII, Annalista Saxo, p. 266
http://www.mgh.de/dmgh/resolving/MGH_SS_37_S._266

 

3. Nella Vita di S. Udalrico vescovo scritta da Gherardo sono presenti diversi personaggi di nome Razo. Ad esempio, da un episodio collocabile negli anni ’70 del X secolo: “[…]  Idem Liutnotus quadam die ad domum Razonis , qui tunc potens episcopi minister fuit , in oppido Pobinga 84 venit , et ibi cum eo prandium sumpsit . Qui cum saturatus fuisset et i abire vo luisset , praefatus Razo cogebat eum plus ad bi bendum . Cuius peticioni ille contradicere non audebat , sed vas quod illi porrigebatur a accepit , dicendo : Istam siceram bibere pro caritate sancti Oudalrici , per cuius adiutorium de maximis angu stiis liberatus sum , volo b . Cumque poculum hau sisset , et vas cum manu deorsum verteret , dixit : Cum ista caritate signatus , certus sum , quia nul lius adversitatis pravitas mihi hodie poterit nocere , sed neque gladius c corpus metim vulnerare . Cui Razo dixit : Da mihi digitum tuum, ut videam , siculter meus tuum possit vulnerare menbrum . Qui statim magna fide digitum suum porrigebat Ipse autem , adprehenso eius digito , alia manu cultrum de vagina extrahere conabatur ad vulnerandum digitum praenominati pistoris , propriaeque e suae manui cum eodem cultro grande vulnus infecit , digitumque adprehensum simul et cultrum festine dereliquid , et suam manum vulneratam lamentari coepit . Pistor autem in fide confortatus , sanus recessit . […] ”

MGH, Tomus VI, p. 419-420.
http://www.mgh.de/dmgh/resolving/MGH_SS_4_S._421

 

4. Documento più tardo, ma italiano: in una donazione di Matilde di Canossa al Monastero di Sant’Andrea a Mantova nel 1072, compare come testimone un certo “Razonis atque Crescentii legge Salica viventi rogati testes” (riportato nell’indice come Razo)
http://www.mgh.de/dmgh/resolving/MGH_DD_MT_S._35

 

Marco Valenti, invece, ha scelto un nome “rimembrante” legato agli anni iniziali della sua formazione; il primo libro che ha letto contenente una descrizione legata all’alto medioevo è stato infatti quello di Eileen Power, Vita nel Medioevo, traduzione di Lodovico Terzi, Torino, Einaudi 1966 (ed orig.  Medieval People, 1924).

Convinta che “la storia vale in quanto è viva”, Eileen Power ha voluto studiare la vita medievale nei suoi aspetti piú minuti e quotidiani, analizzando documenti piuttosto rari che testimoniano delle vicende di gente comune; un libro formato da sei saggi, nei quali vengono studiate le vicende di personaggi simili a tanti altri, ma proprio per questo emblematici: uno di questi è un contadino, la cui esistenza può essere delineata attraverso l’attività di una tenuta agricola dei tempi di Carlo Magno. E’ la storia di Bodo il contadino, tratta dal Capitulare de Villis; Bodo ha una famiglia con moglie, due maschi e una femmina: Ermentrude e tre bambini che si chiamavano Wido, Gerberto e Hildegard.

Pertanto la famigli Valenti che opera nell’Archeodromo di Poggibonsi (Alessandra Nardini e i figli Guido e Tommaso Valenti) costituiscono la famiglia di Bodo: Alessandra Nardini prende il nome di Ermentrude, Guido e Tommaso Valenti rispettivamente Wido e Gerberto.

Cito infine un personaggio particolre, Lupola (Lola Teale) che rappresenta una monaca dell’Abbazia di Fontebona che coopera con il dominus Razo nell’amministrazione dei suoi possedimineti.

Non esiste addentellato storico per questo personaggio, se non il fatto che sappiamo come la Marca di Tuscia eccelleva sotto l’aspetto culturale: nella sede di Lucca i conti inaugurarono infatti una “Scuola notarile” aperta a iudices laici.

Questo personaggio rappresenta quindi un po’ una forzatura ma le capacità di chi lo interpreta e la sua dotazione di uno scriptorium eccellente ci permettono di inserirlo, pur dichiarandone i limiti storici.

 

d – Donazione dell’867 alla fondazione dell’Abbazia di Fontebona

867 anno XVII di Lodovico II imperatore, ind. XV, febbraio.

Winigi e sua moglie Richild assegnano  molti loro beni nella Berardenga in dote alla chiesa e al convento di monache, da loro eretti in Campi, luogo detto Fontebona, sul rivo Coggia : e determinano la successione delle prime abbadesse  nelle persone di Itta, loro rispettiva suocera e madre, e di Richild, loro figliuola.

(….)

“cum casis, terris, vineis, silvis, servis prò servis, aldiis prò aldiis, liberis prò liberis, omnia et in omnibus ad ipsa villa pertinentes et casas in ipso suprascripto  Canpi, cum servos et ancillas, cum greges porcorum, greges pecorum, greges caprarum, greges iumentorum, greges armentorum. Et dedimus res nostras in Casprma qui nobis da quodam Odone et Albisinda saligos per cartula evenerunt, cum casis et hedificiis, cum greges ovium et greges porcorum et greges armentorum, cum servos et ancillas, et cum ipsos pastores, qui ipsa animalia custodiunt. Id est nomina eorum in primis ibidem ad ipsius monasteno in villa qui dicitur Canpi:

lohannes celerario cum Rodelinda uxore sua, et cum Adalberto filio suo; Vualeprando, befulcus, frater eidem lohanni cum uxore sua, nomen Magna et Ursa filia sua; Lupari, befulcus, cum Vualeperga, uxor sua, et Sperandeo et Raintuda et Bonula, fìlie eorum, lohannes, befulcu, cum Sanctaperga, uxore sua; Albini, befulcus cum Odisinda, uxore sua; et Donatulo befulcus cum laneperga uxore sua;

et abitat in Septiminule Bertesusu cum uxore sua, lldiperga, et Bertisinda fìlia eius; iumentario uno, nomen Ildeprando cum Ansiperga uxore sua; Savino, pecorario, et Vuineperga, uxore sua, et Ursula, filia suprascripto eius; Felix, pecorario, cum Sintruda, uxore sua, et lohannes, Lupulo, Ursi Anulo, Fileperga, Ansula, Ursula, fìliis eorum, et lohannes Siila iunior eius.

Et de suprascripta Casprina pastores, servos et ancellas nomen eorum id est : Magiolo, pecorario, cum Teupia uxore sua, et filios masculos tres, id est : lohannes, Petrus, Teupala et fìlie femine due, Gumperga et Magiperga, nuruam eidem Magioli, Raintruda cum Andrea filio suo, et iuniores ipsius Magili duo, Lupulo et Teupulu; vaccario uno nomen Deodato cum Lupula uxore sua et Martmo filio suo ; porcario uno nomen Amulo cum Gaitruda  uxore sua, cum Amalperga et Raintruda filie ipsius, Garipaldo eidem Amuli.

Et donamus ibidem alios servos nostros manuales, ministeriales, Rodulu, Coco, cum Teuderada uxore sua ; Ildeprandello pristinario cum Dativa uxor sua; Gottefredo, lavandarius, cum Frouperga, uxore sua, Anastasius et Atriano filius eorum ; tappetarios tres, id sunt Ursulu cum Sighitruda uxore sua, Flodoard et Ansipertu. Donamus adque concedimus et tradedimus in ipso prefato monasteri domini Salvatori curte nostra ad Sanctum Paulo cum ipsa ecclesia que est posita prope Piscma infì (?) super fluvio Bumba.

Simulque donamus ibi ipsis casis, curtis et rebus nostris quas abemus in casalis Sextano qui  nobis per cartula advinet da Teuderico filio quondam Aiponi, seo casis et rebus ipsis ibi in Sextano, que Petro burgondio ad suas tenet manus. Simulque et donamus ibi alia ecclesia nostra quod est dedicata in honore sanctorum Cosme et Damiani (*), qui sita est ibidem m Campi seo et donamus ibi alia ecclesia Sancti Petri (“) cum ipsa curte nostra domnicale sita Clatina. Donamusque et tradedimus ibidem curte et ecclesia nostra que hedificata est in honore sancti Fabbiani super fluvio Arbia. Simulque donamus ibidem oratorio nostro qui est constructus in honore sancti Ansani sito platea senense. Seo donamus adque tradedimus ibidem curte nostra illa in Gamunsa prope fluvio Umbrone. Et donamus ad ipso monasteri servo nostro ilio in Clatina nomen IIdeprando, cum Oda uxore sua et lohanne filio eius.

Ego Vuinigis Comes subscripsi. Ego Adelom subscripsi. Signus manus eidem Richilde, ut super legitur, scnbere rogavi. Ego Leonardus subscripsi. Ego Dionisiga scribere rogatus ad Vuinigis comes subscripsi. Ego Leodoinus, levita, subscripsi. Ego Crisconius subscripsi.

Ego Rainulfus subscripsi. Ego Bernardus subscripsi. Ego Vuillefredus, subscripsi.

3. Il ritorno di Razo

a – Presenti all’Archeodromo 

  • Vittorio Fronza (correggiaio) – Teupala
  • Federico Salzotti (falegname) – Johannes
  • Luca Isabella (cuoco) – Garipaldo
  • Marco Valenti (cellario e contadino) – Bodo
  • Dario Ceccherini (ministeriales) – Gottefredo
  • Alessandra Nardini (tintora) – Ermentrude
  • Gaetano  Salvatore (candelaio) – Sperandeo
  • Cinzia Gazzarri (telaio) – Ursa
  • Francesca Koll (filatrice) – Bonula
  • Guido e Tommaso Valenti (bambini) – Wido e Gerbert
  • Lola Teale (monaca amanuense; proviene da Fontebona) – Lupola
  • Dario Ceppatelli (dominus) – Razo
  • Riccardo Guercini (scudiero) – Urso
  • Gabriele Zorzi e Irene Barbina (ospiti venuti da Staggia; famiglia dei Lambardi – futuri fondatori di Badia a Isola; si professano di legge longobarda) – Gisalprando e Ava
  • Diego Giulietti – Elettra Gardini (musici e cantori provenienti anch’essi da Staggia insieme ai Lambardi) – Lupari e Vualeperga
  • Altri due musici –  Bertesusu e Floadard
  • Vasco La Salvia ? – Magiolo (aiutante fabbro)

 

b – Storyboard schematico – Il ritorno di Razo

Anno 804

  • ore 11 accensione fuochi e inizio attività (i tempi che seguono ora sono tutti indicativi, tanne le 15)
  • ore 12 si mettono su i maialini e nel calderone di rame (o il pignattone di La Fara) il farro
  • ore 13 si sfornano panigacci
  • sino ad ore 14,30 continuano le attività
  • ore 15 arrivo dominus
  • sino alle 15,30 controllo di tutte le attività (con resoconto dalla monaca amanuense) e posa delle armi e musica dalla longhouse
  • ore 15,30 dominus racconta al fuoco le sue avventure di guerra; intanto arrivano gli ospiti da Staggia a rendere omaggio al grande guerriero – convenevoli – e si dispongono nella longhouse.
  • ore 16 circa Dario Ceccherini legge il profilo di Carlo magno (è di Alcuino ma noi lo abbiamo riadattato)
  • ore 16,20 Diego suona un pezzo
  • ore 16,35 dominus riprende la parola e sbeffeggia gli avari che ha combattuto, definendoli donnicciule  – Gabriele si risente e protesta mettendo mano allo scramasax (i longobardi, prodi, hanno infatti subito dagli Avari, proprio a Cividale)……
  • ore 16,45 interveniene un servo a far da paciere e chiede il racconto a Gabriele
  • Finito Diego suona
  • ore 17,30 si smonta e si chiude al pubblico; apparecchiamo dentro la longhouse illuminata con candele ed il fuoco e dalle 18 si mangia il maialino di latte arrostito; si beve vino.

Poi ognuno può fare ciò che vuole…. è la vita comune, per noi stessi: cantare raccontare, ridere ecc.

 

c – Gli ospiti da Staggia

La presenza di Gabriele, Irene e di Diego con il progetto musicale “Winileod” trova perfetta giustificazione appigliandosi allo stesso territorio valdelsano.

Nel loro insieme costituiscono un gruppo elitario vicinale in visita, per omaggiare Razo che torna, a sua volta composto da dominus e moglie insieme ad un quartetto di musici che fanno parte del loro seguito.

Provengono da Staggia e questo elemento ci da modo di allargare il nostro storytelling alla valdelsa altomedievale. Staggia è infatti un castello di precoce attestazione nel comune di Poggibonsi, dal quale dista 8 km (1 ora e 45 minuti a piedi). Le prime notizie risalgono all’anno 994 e sono contenute in un documento del fondo di Abbadia a Isola: la chartula de morgengabe di Trigesimo.

Questo centro fondiario apparteneva probabilmente da secoli al gruppo aristocratico dei Lambardi, dei quali sia Willehim Kurze che Paolo Cammarosano hanno studiato le vicende.

I due storici infatti nell’ambito di due lavori separati (Willheim Kurze, Monasteri e nobiltà nel Senese e nella Toscana medievale. Studi diplomatici, archeologici, genealogici, giuridici e sociali, Siena 1989; da ora in poi Kurze 1989. Paolo Cammarosano, Abbadia a Isola. Un monastero toscano nell’età romani. Con una edizione dei documenti 953-1215, Castelfiorentino (Firenze) 1993 Biblioteca della «Miscellanea Storica della Valdelsa», 12; da ora in poi Cammarosano 1993) hanno esaminato le vicende patrimoniali della famiglia dei Lambardi.

Kurze affronta le prime notizie documentarie di metà X secolo, cioè la conferma di alcune loro proprietà da parte dei re Berengario e Adalberto (il preceptum Berengarii et Adelberti Regnum del 953 in Cammarosano 1993, n. 1, 23 giugno 953). Riconosce in Ildebrando, figlio di Isalfredo e sposo di Ava figlia del conte Zenobio, un esponente di quella nobiltà di origine longobarda che era riuscita a infiltrarsi nel novero della sfera dirigente laica formata, nell’Italia centro settentrionale, soprattutto e quasi esclusivamente da immigrati d’Oltralpe.

Analizza poi un documento particolare redatto dai monaci di Badia a Isola, cioè la genealogia della famiglia, raffigurata in una pergamena miniata nella metà del XII secolo (Cammarosano 1993, n. 75, ante 1164 gennaio; è illustrata anche graficamente in Cammarosano 1993 e in Kurze 1989), che attesta l’antichità di tale gruppo (non dobbiamo quindi escludere che il primo nucleo fondiario intorno a Staggia possa risalire almeno al regno longobardo).

Kurze, basandosi sui primi documenti di Isola e sugli antenati di Ildebrando citati dalla Genealogia deduce attendibilmente che Ildebrando (il quale risulta in età virile nel 953 e morto già nel 994) doveva essere nato intorno al 930; adottando quindi i 30 anni come intervallo generazionale (per altro, a parere nostro, molto plausibile; il cimitero altomedievale scavato a Poggio Imperiale a Poggibonsi vede infatti la maggioranza della popolazione deceduta tra i 30 e i 35 anni) passa in rassegna i suoi avi (cinque generazioni; i nomi citati sembrano provenire dalla tradizione orale tramandatasi nella famiglia stessa: Cammarosano 1993, pp. 39-41), cioè Rodulfiatus, Odalberto, Gisalprando e infine il quadrisavolo e capostipite Reifredo, collocando la nascita di quest’ultimo all’epoca della dominazione longobarda, quasi sicuramente nel decennio 770-780 (Kurze 1989, pp. 234-235).

I nomi che nel nostro storytelling attribuiamo pertanto al gruppo proveniente da Staggia sono in parte tratti dalla genealogia in questione; mentre per i musici si è deciso di attingere nuovamente al documento di fondazione dell’abbazia di Fontebona nella Berardenga.

Pertanto in base al periodo che rappresentiamo in questa giornata del 7 dicembre (come diremo fra breve è l’anno 804) il nome maggiormente inidiziato per Gabriele Zorzi è Gisalprando; mentre nella genealogia non sono riportati nomi femminili quindi per Irene Barbina scegliamo di attribuire uno dei pochi noti (anche se più tardo): Ava.

Per i musici quindi mischiamo nomi di tradizione locale con nomi di origine longobarda. Diego Giulietti è Lupari; Elettra Gardini è Vualeperga. Per gli altri due musici si è optato per Bertesusu e Floadard.

Per l’abbigliamento si è deciso di attenersi all’abito tradizionale longobardo. Perché? Perché l’idea che ci siamo fatti è quella di un conservatorismo delle tradizioni in anni di poco successivi alla sconfitta e sottomissione del 774; questa famiglia si professa infatti ancora di origine longobarda nell’XI secolo e la genealogia mostra sia la loro volontà di attestare il proprio lignaggio famigliare sia il mantenimento di alcune caratteri longobardi (Ildebrando, figlio di Isalfredo e sposo di Ava figlia del conte Zenobio, viene raffigurato con barba e lunghi capelli raccolti in treccine) sia, infine, la procrastinazione di nomi di origine longobarda in tutti i membri maschi citati in questo formidabile documento..

Staggia, dove sotto la direzione di Marco Valenti si è scavato, mostra come si rintracciano evidenze di fortificazioni effettuate tramite recinti in legno. L’insediamento si collocava sulla zona sommitale della collina e molto probabilmente sugli spazi racchiusi dalla seconda cinta muraria del castello trecentesco. L’area sommitale era  ripartita in due terrazzi sino dalla sua prima fase di occupazione forse iniziata in età tardoantica, alla quale succedettero strutture tipo capanna. Alla metà dell’VIII secolo il centro continuava ad essere caratterizzato da capanne con scheletro in armatura di pali ed elevati in terra pressata; nel terrazzo a valle si sono messi in luce chiari allineamenti di buche di palo in buono stato di conservazione, di forma squadrata e quasi sempre dotate di ciambella tufacea a rinforzare la stabilità del palo (in diversi casi si sono evidenziati riusi anche multipli). In via preliminare si possono identificare due strutture in legno di medie dimensioni (oppure una di grandi dimensioni) che occupano tutto lo spazio indagato, circondate da una fortificazione in legno parallela alla più tarda cinta in muratura che in alcuni casi taglia le buche stesse.

A Staggia, tra IX e X secolo la fortificazione in legno fu sostituita da una struttura in muratura legata da terra sulla quale si impostano alloggi per pali ed elevati in terra mista a ciottoli e pezzame di pietra; anche gli edifici coevi mostrano la medesima tecnica costruttiva e pertanto si configura una fase insediativa costituita da strutture in “materiali misti”. Le case si dispongono sia all’interno, sia all’esterno del circuito murario e sono affiancate da edifici di modeste dimensioni realizzate in armatura di pali (si veda, con bibliografia, Marco Valenti, I luoghi del territorio, in Riccardo Francovich-Marco Valenti (a cura di). Poggio Imperiale a Poggibonsi. Il territorio, lo scavo, il parco, pp. 41-73, Milano, Silvana Editoriale, 2007).

4. Storytellinga – I fatti che inseriamo

La narrazione di Dario Ceppatelli sulla guerra ai Sassoni ed agli Avari attinge soprattutto a  Alessandro Barbero, Carlo Magno. Un padre dell’Europa, Storia e Società, Bari, 2000. Gianni Granzotto, Carlo Magno, Milano 1998. Franco Cardini, Carlo Magno. Un padre della patria europea, Bompiani, 2002.

I Bavari, costretti da Pipino a riconoscersi tributari dei Franchi, guidati dal loro duca Tassilone, sposo di Liutberga, figlia di Desiderio, si erano alleati con gli Avari e con Arechi, mantenendo un atteggiamento ostile contro i Franchi. Nel 787 Carlo Magno mosse contro Tassilone che, abbandonato dai suoi, si arrese; condannato per fellonia, dovette abdicare e la Baviera fu incorporata al regno carolingio e divisa in contee rette da Franchi. Restava aperto il problema degli Avari, che, già alleati dei Burgundi, compivano scorrerie in Baviera e in Italia. Più che a sottometterli Carlo Magno mirava a spezzare la loro unità politico-militare con le popolazioni slave per dare sicurezza alle frontiere orientali. Nel 791 Carlo Magno iniziò le operazioni militari. Contemporaneamente il figlio Pipino, penetrato in Pannonia, assaliva e sconfiggeva gli Avari (23 agosto 791) e continuava poi le operazioni, lunghe e difficili, fino al 795, quando riusciva a espugnare il Ring avaro (campo trincerato circolare posto tra il Tibisco e il Danubio) dove era ammassato il tesoro del nemico. Gli Avari in parte si sottomisero e in parte fuggirono. Ribellatisi l’anno seguente, furono di nuovo sconfitti; il Ring venne demolito e fu creata la Marca Avarica, da cui sorgerà il Ducato d’Austria.

Quella contro i Sassoni fu la più difficile e lunga impresa di Carlo Magno e  durònell’insieme 32 anni (dal 772 all’804). Gli anni dal 781 al 785 furono i più difficili della guerra: nel parossismo della lotta Carlo Magno emise il capitolareDe partibus Saxoniae, in cui imponeva ai Sassoni, sotto pena di morte, di convertirsi al cristianesimo e di farsi battezzare. I Sassoni risposero con rinnovato impeto guerresco e Carlo Magno dovette rimanere al campo anche d’inverno; battaglie cruentissime si accesero a Detmold e sulla Haase; a Verden il re si macchiò di una grave colpa facendo massacrare 4500 ribelli; pur di piegare l’ostinata resistenza mise tutto il Paese a ferro e a fuoco. Nel 785 il leader Vidukindo dovette arrendersi e si ritirò dalla lotta. Rimasero in armi i Sassoni dell’estuario dell’Elba, del Weser e della Nordalbingia. Nel 792, 793 e dal 795 al 799, quasi ininterrottamente, Carlo Magno condusse implacabili ed efferate spedizioni punitive; ma solo nell’804, deportando masse di Sassoni e affidando i loro territori a Franchi e Abodriti, riuscì a raggiungere il suo intento.

 

La narrazione (o lettura) di Dario Ceccherini sulla figura di Carlo Magno è tratta da Virginio Marrucci (a cura di), Eginardo. Vita di Carlo Magno, Salerno, 2006. E’ un Carlo attempato quello che si mette in scena; già incoronato imperatore ed impegnato negli studi e nella cura del corpo.

 

La narrazione di Gabriele Zorzi è relativa al 610 ed è basata sul  quarto capitolo della «Historia Langobardorum» di Paolo Diacono.

Gli Avari invadono il Friuli, sconfiggono i Longobardi e uccidono il duca Gisulfo II, che cade in battaglia nel vano tentativo di difendere il suo territorio; subito dopo pongono l’assedio alla capitale, Cividale, sulle rive del fiume Natisone.

A Cividale si sono rifugiati la vedova del duca, Romilda, e un certo numero di persone non combattenti, soprattutto donne e bambini; le speranze di resistere sono poche, stante la schiacciante superiorità del nemico; per cui ben presto la duchessa decide di intavolare trattative e di addivenire a una resa patteggiata, forse con la promessa di risparmiare il saccheggio alla città e la riduzione in schiavitù degli abitanti.

Invece gli Avari, una volta entrati in Cividale, non risparmiarono né cose, né persone; rubano tutto ciò che trovano, incendiano la sventurata città e conducono via, schiavi, perfino i figli di Romilda, quattro maschi e quattro femmine; i primi riusciranno poi a fuggire dalla Pannonia e a tornare in Friuli, le seconde si sottraggono allo stupro con un’astuzia.

La loro madre, comunque, subisce la sorte peggiore: dopo essere stata torturata e violentata, a turno, da ben dodici guerrieri, viene impalata alla presenza del re nemico, Cacano, il quale, dopo averla posseduta per una notte, non si trattiene dallo schernirla con parole insultanti, mentre la condanna al tremendo supplizio.

 

b – Il ritorno di Razo dalla guerra

In quella sera, nell’anno del signore 804, una gran folla si era radunata nella casa padronale della curtis. Il dominus Razo era tornato dalla consueta campagna militare al servizio del Re e, come ogni anno, al suo ritorno, i servi, i contadini, i magistri… Tutti quelli che popolavano e lavoravano le terre erano ansiosi di sapere le notizie dal mondo.

Il dominus era particolarmente felice: dopo aver controllato i conti, appena tornato, e visitato il magazzino e il granaio, aveva appreso che il raccolto era andato particolarmente bene quell’anno, nelle botti riposava una gran quantità di vino che l’anno successivo sarebbe stato venduto a peso d’oro.

Gli animali dell’allevamento prosperavano e ingrassavano.

Si rammaricò della morte di due vecchi massari, ma gioì della nascita di sette bambini, due dai suoi servi e cinque dai contadini delle sue terre. Con un po’ di fortuna sarebbero sopravvissuti fino all’età giusta in cui sarebbero stati in grado di contribuire.

Per festeggiare, il cilleraio aveva invitato alcuni rappresentanti della famiglia di origini longobarde che dimorava a Staja, a poche ore di cammino verso meridione.

In attesa che il maialino venisse servito e si desse inizio al banchetto, il dominus e i suoi ospiti erano seduti nei pressi del focolare. Poco lontano i servi e i contadini, seduti e ammassati dove capitava fremevano perchè iniziasse il racconto e sognavano il momento in cui avrebbero addentato la loro parte di carne.

Il cilleraio si fece avanti:

CILLERAIO (Marco Valenti): – Allora dominus, quale paese hai visto stavolta, quali imprese hai compiuto ? –

RAZO (Dario Ceppatelli): – Dammi un buon boccale di idromele e ti racconto tutto -. La bevanda venne servita e il dominus iniziò a parlare: – Stavolta ho seguito Re Pipino fino in Sassonia. I sassoni non hanno mai accettato di buon grado la dominazione franca e l’anno scorso si sono ribellati… Noi siamo andati là per soffocare la ribellione…
…E ci siamo riusciti… Accidenti se ci siamo riusciti!
Re Carlo, anzi, ormai l’Imperatore Carlo, era proprio in collera. Anzi, era esasperato dalle continue ribellioni in quella regione. Poi, dopo aver perso due suoi amici per mano dei sassoni doveva dare una lezione a quei manigoldi.
Siamo piombati in forze su quei disgraziati e, in poco tempo, li abbiamo ridotti al silenzio.
Re Carlo, però, stavolta ha esagerato: ha fatto decapitare qualche migliaio di quei poveretti… E in alcuni casi ha dato l’esempio di persona. – Razo mima il gesto di decapitare qualcuno – . Noi guerrieri esperti siamo rimasti un po’ perplessi di fronte a quella violenza gratuita.
Intendiamoci: non mi faccio nessuno scrupolo a tagliare la testa ad un nemico… Ma così disarmati e inermi… C’erano anche donne e vecchi… Potevi salvarti solo se ti convertivi.
Chi, per grazia di Dio si è salvato, è stato deportato.
Un espressione di disgusto si disegnò sul volto del dominus.

RAZO (Dario Ceppatelli): – Sarà che di politica non ci capisco niente, ma secondo me non c’era bisogno di tanto orrore.
Eh no! Non è stata una bella campagna militare.
Niente se paragonata a quella di una decina di anni fa. Avevo già preso parte a qualche azione di guerra e a qualche campo di marte, ma quello fu il primo, vero, grande esercito a cui prendevo parte. Fu allora che incontrai il Re… Re Carlo intendo… per la prima volta.

VILLICO (Vittorio Fronza): stupito e ammirato – Davvero? e cosa ti disse? –

RAZO (Dario Ceppatelli): – Eh. Ah! mi disse… Mi disse… Niente, che volevi che mi dicesse?
Lo vidi passare a cavallo.
Un grand’uomo. Lo sguardo come di un leone e la mano destra, come artiglio d’aquila, impugnava la spada. –

MINISTERIALES (Dario Ceccherini): – So che è un grand’uomo! Qualche anno fà, durante un pellegrinaggio a Roma, ebbi la fortuna di incontrare Alcuino, una persona importante alla corte di Re Carlo, un’uomo molto vicino a lui. Ci parlai e gli chiesi di descrivere il Re. La descrizione mi colpì così tanto che decisi di fissare le sue parole con l’inchiostro… (tira fuori una pergamena arrotolata). Se avrete la pazienza di ascoltarmi ve le leggerò…

(inizia la lettura, riadattamento del ritratto di Carlo Magno scritto da Eginardo nella Vita di Carlo Magno; con alcune parti che di sicuro ha tratto da colloqui con Alcuino – nato nel 735 morto nell’804 – da carte di Alcuino)

Il re Carlo ha un corpo largo e robusto, statura alta, ma tuttavia non sproporzionata (la sua altezza misura sette volte il suo piede), la sommità del capo rotonda, gli occhi assai grandi e vivaci, il naso un po’ lungo del normale, una bella chioma bianca, un volto piacevole e gioviale, che gli conferisce un aspetto molto autorevole e dignitoso sia quando sta in piedi sia quando è seduto.
Sebbene il suo collo possa sembrare grasso e troppo corto, e il suo ventre alquanto prominente, tuttavia le misure proporzionalmente corrispondenti delle altre membra non fanno notare quei difetti. Ha ferma andatura e tutto l’atteggiamento del corpo virile, la voce è chiara, ma la meno adatta al suo aspetto fisico. Di salute buona, solo per quattro anni, è stato colto dalla febbre, e sta iniziando a zoppicare anche da un piede. E anche ora fa più come gli pare che come lo consigliano i medici, che gli sono praticamente odiosi, perchè lo esortano a smettere di mangiare arrosti. Pratica assiduamente l’equitazione e la caccia, esercizi che sono lui connaturati, perchè sulla terra non si trova forse alcun popolo che in quest’attività possa paragonarsi ai Franchi.
Gli piacciono anche i bagni di vapore di acque termali e spesso esercita il suo corpo nel nuoto, del quale è così esperto da non essere superato da alcuno. Anche per questo motivo ha costruito in Aquisgrana una reggia, nella quale abita ininterrottamente. E invita al bagno non solo i suoi figli, ma anche i nobili e gli amici, e qualche volta anche la folla dei soldati di scorta e delle guardie del corpo, cosicchè talora prendono il bagno insieme cento persone e anche di più.
Indossa il costume nazionale dei Franchi: a contatto del corpo porta una camicia di lino e mutande di lino; di sopra, una tunica orlata di seta e calzoni; poi avvolge le gambe con fascette e i piedi con calzari; d’invero protegge le spalle e il petto con un farsetto di pelle di lontra o di topo; indossa un mantello azzurro e cinge sempre una daga, che ha l’elsa e la bandoliera d’oro e d’argento. Talora si serve anche di una spada ornata di gemme, ma soltanto in occasione delle feste principali e dei ricevimenti di ambasciatori stranieri. Disdegna gl’indumenti forestieri, anche se sono bellissimi, non vuole mai vestirsene, tranne che a Roma, dove, una volta su richiesta di papa Adriano e un’altra per preghiera del suo successore Leone, ha indossato una tunica lunga e una clamide e si è messo anche scarpe di foggia romana. Nei giorni di festa va coperto di una veste ricamata d’oro, porta calzari adorni di gemme, ferma il mantello con una fibbia d’oro e si orna anche di un diadema d’oro e di pietre preziose; negli altri giorni, invece, il suo abbigliamento differisce poco da quello comune e popolare.
E’ moderato nel mangiare e nel bere, ma più moderato nel bere, tanto che ha in odio l’ubriachezza in qualsiasi uomo, non solo in sè e nei suoi. Mentre nel mangiare non riesce a fare altrettanto, e spesso si lamenta che i digiuni sono nocivi al suo fisico. Mangia a banchetto molto di rado, e questo solo nelle principali feste, allora però con un gran numero di persone. La cena di ogni giorno è di quattro portate, a parte l’arrosto, che i cacciatori sono soliti infilzare allo spiedo, e che egli mangia molto più volentieri di qualsiasi altro cibo. Mentre cena sta ad ascoltare qualche artista o lettore.
Gli vengono lette le storie e le gesta degli antichi. Gli piacciono anche i libri di sant’Agostino, soprattutto quelli intitolati La città di Dio. E’ così modesto nel bere, sia vino che altro, che durante la cena di rado beve più di tre volte. D’estate, dopo il pasto di mezzogiorno, prende un po’ di frutta e beve una volta sola, poi levatisi vesti e calzari, come è solito fare la notte, riposa per due o tre ore. La notte dorme poi interrompendo il sonno quattro o cinque volte, e non soltanto si sveglia, ma anche si alza dal letto. Mentre si alza o si veste, ammette alla sua presenza gli amici; se il conte di palazzo gli dice che c’è in corso qualche procedimento che non può essere definito senza il suo imperio, ordina di introdurre immediatamente i contendenti, come se sedesse in tribunale, e conosciuti i termini della disputa da la sua sentenza; e in quei momenti non solo sbriga cose del genere, ma anche qualsiasi ordine ci sia da dare a qualche subalterno.
E’ dotato di eloquio facile ed esuberante ed è capace di esprimere con la più grande chiarezza tutto ciò che voleva. Non contento di conoscere soltanto la propria lingua materna, si dedica anche allo studio delle lingue straniere, tra le quali ha appreso così bene la latina, che abitualmente si esprime con uguale padronanza in questa lingua o nella sua lingua materna, mentre la greca è in grado di capirla più che di parlarla.
E in verità ha una tale facilità di parola, da apparire un po’ prolisso.
Coltiva le arti liberali con grande passione, e poiché nutre una profonda venerazione per coloro che le insegnano, tributa loro grandi onori. Per lo studio della grammatica, ascolta le lezioni del diacono Pietro da Pisa; per le altre discipline ha come maestro Albino, detto Alcuino, anche lui diacono, un Sassone venuto dalla Bretagna, l’uomo più dotto in qualsiasi campo; sotto la sua guida spende moltissimo tempo e fatica nello studio della retorica, della dialettica e particolarmente dell’astronomia.
Si dedica all’apprendimento dell’arte del calcolo e con estrema curiosità indaga il corso degli astri, applicandovisi con la sua acuta intelligenza. Tenta anche di scrivere, e a questo scopo ha l’abitudine di spargere sotto i guanciali del suo letto tavolette e foglietti di pergamena, per abituare la mano a tracciare le lettere, quando ha un po’ di tempo libero; ma quest’applicazione, iniziata troppo tardi, ha poco successo. Pratica col più grande scrupolo e col più alto fervore la religione cristiana, nella quale è stato educato fin dall’infanzia.
Appunto per ciò ha innalzato in Aquisgrana una basilica di eccezionale bellezza, che ha adornato d’oro e d’argento, di lampadari e di balaustrate e porte di bronzo massiccio. Poichè non può procurarsi altrove le colonne e i marmi necessari alla sua costruzione li ha fatti trasportare da Roma e da Ravenna. Frequenta assiduamente la chiesa al mattino e alla sera, sia agli uffici notturni che alla messa, e cura molto che tutto quel che vi si celebra sia nel massimo decoro, ammonendo continuamente i custodi a non permettere che sia introdotto o rimanga nella chiesa mai nulla di indecoroso o riprovevole. Ha procurato alla basilica tale quantità di vasi sacri in oro e argento e di vesti sacerdotali, che neppure gli ostiari, che sono gli ultimi nella scala degli ordini ecclesiastici, hanno mai necessità, durante le messe, di celebrare senza abiti di cerimonia. Cura e perfeziona con grande zelo la disciplina delle letture e del canto. E’ infatti molto preparato in ambedue le arti, sebbene egli stesso non legga pubblicamente nè canti mai se non sommessamente e insieme con gli altri.

RAZO (Dario Ceppatelli): – Parole giuste e ben scritte! – disse il Dominus con sincera ammirazione – Ma io l’ho visto di persona… e sono sicuro che lui abbia visto me… o forse no… comunque ero lì!
Noi caballari eravamo schierati poco fuori da uno degli accampamenti nella Pianura Pannonica, nel territorio degli Avari, e il gran Re volle congratularsi con noi per aver conquistato alcune roccaforti nemiche. –

VILLICO (Vittorio Fronza): “Ma, perché? Non le aveva conquistate lui? Non comandava Lui l’esercito?”

RAZO (Dario Ceppatelli): “No, no… E ora vi spiego perché.
In quell’anno eravamo veramente tanti a marciare sotto le Insegne Reali. Molti popoli vi presero parte: Franchi, Turingi, Sassoni, Longobardi…
Re Carlo mosse guerra contro gli Avari, una nazione di cavalieri che vive a levante, nei grani spazi aperti della Pannonia. Si diceva che fossero un popolo temutissimo, guerrieri formidabili..
In sella ai loro cavalli, completamente coperti di ferro, erano capaci di travolgere qualsiasi nemico gli si parasse di fronte e trafiggerlo con le lunghe lance o infilzarlo con le migliaia di frecce che fanno cadere sulle schiere avversarie… Almeno così si diceva.
Avevamo paura, come è normale in guerra…
Noi però avevamo Carlo… Quella volpe…
Dovete sapere che la Pianura Pannonica è divisa in due dal grande fiume Danubio che la attraversa per tutta la sua lunghezza… –

SERVO ARMATO (Riccardo Guercini): “E’ più grosso dell’Elsa quando è in piena! Ma parrecchio!!!”

RAZO (Dario Ceppatelli): Guardò il suo servo e scosse la testa con rassegnazione.
– Dicevo… Questo fiume attraversa il territorio nemico. Così il Re divise il suo grande esercito in tre contingenti: uno avrebbe seguito il corso del fiume sulla sponda sinistra, a settentrione, l’altro, comandato dal Re in persona, l’avrebbe seguito sulla sponda destra, a meridione. Il terzo contingente, ai comandi del nostro Re d’Italia Pipino, sarebbe entrato nei territori Avari dal Friuli e avrebbe accerchiato l’esercito nemico.
Il mio signore faceva parte di questo contingente, ed io lo seguivo insieme ad altri exercitali pari miei. Al nostro fianco, oltre ad altri Franchi, marciavano i possenti guerrieri delle antiche famiglie longobarde che, come dissero loro, seguivano al contrario il sentiero che i loro avi percorsero quando arrivarono in Italia. –

Gli OSPITI LONGOBARDI sorrisero e annuirono in segno di assenso.

– Il luogo di incontro per tutti quelli che partecipavano sotto le insegne di Pipino, – riprese RAZO – era Civitas Austriae o, come la chiamano i suoi abitanti, Cividale capitale della Marca Orientale del Friuli.

VILLICO (Vittorio Fronza): “Cividale… Cividale… l’ho già sentita. Dev’essere in Val di Cecina, verso il mare…”.

RAZO (Dario Ceppatelli): – No, ignorante! Cividale è molto lontana, verso levante. Abbiamo viaggiato diversi giorni per arrivarci.
Prima lungo l’Elsa, fino all’Arno. Da lì, abbiamo fatto tappa a Lucca qualche giorno. Dovevamo aspettare che tutti i guerrieri della Marca di Tuscia convergessero su quella città, il vescovo ci ha benedetti e siamo ripartiti. Ci siamo incamminati per le valli che si incuneano negli Appennini, e li abbiamo valicati. Immaginatevi: una lunga fila di uomini, cavalli, buoi e carri che arrancavano faticosamente su per i sentieri montani.
Io ero con il gruppo di testa,  molto vicino a Re Pipino (gongolando) e, quasi in cima al valico, mi sono voltato e… devo dire che mi sono emozionato… C’era un lungo serpentone, irto di lance, che mandava bagliori metallici… Un vero spettacolo!
La discesa è stata più semplice… E una volta giunti ai piedi dei monti, ci si sono aperti davanti i grandi spazi della Pianura Padana, da lì in poi la marcia è diventata più facile, i carri si muovevano meglio e più velocemente.
Riuscivamo a fare 10 miglia al giorno, ma solo perché andavamo al passo dei carri… sapete, tutto il bagaglio: le tende, i viveri, le armi di scorta.
Si, perché oltre alle armi che il Re ordina di avere su di se, spada, scramasax, scudo, elmo, lancia, arco con 12 frecce… ognuno di noi si era portato dietro i viveri bastanti per qualche mese. In questo modo l’esercito assomigliava ad una immensa carovana.
Giunti a Cividale ci unimmo agli altri del contingente del Regno d’Italia e ci preparammo per attraversare il confine.
Per entrare nel territorio degli Avari dovevamo attraversare un’altra catena montuosa… E stavolta con le armi pronte e ben affilate!
Io aprivo la strada! –

SERVO ARMATO (Riccardo Guercini): scosse la testa.

RAZO (Dario Ceppatelli): – Cioè, ero nel gruppo di testa. –

SERVO ARMATO (Riccardo Guercini): scosse la testa, di nuovo.

RAZO (Dario Ceppatelli): – Cioè, prima del gruppo dei caballari, dove mi trovavo, c’erano gli arcieri e gli zappatori che rimuovevano gli ostacoli…
E prima che me ne rendessi conto arrivammo alla frontiera. – disse il Dominus tagliando corto.
Mi aspettavo di vedere una schiera di cavalieri pieni di ferro che ci sbarravano la strada. Mi ero immaginato un muro di ferro e cuoio che ci sarebbe venuto incontro in un’epica battaglia campale. Avrei spronato il cavallo e mi sarei gettato a capofitto nella mischia, le lame avrebbero scintillato e mi sarei coperto di gloria…
…invece niente!
Non vedemmo nessuno. I sentieri erano liberi, le prime capanne che trovammo erano abbandonate.
Non avevano lasciato un chicco di grano.
Finché non arrivammo ad una fortezza. Aveva una bella palizzata robusta costruita in cima ad un terrapieno… ed era piena di guerrieri.
Gli Avari erano scesi da cavallo e si erano asserragliati.
Ci preparammo ad un lungo e noioso assedio. Ad attendere, per giorni, che “quelli dentro” uscissero, si arrendessero o morissero di fame.
Tra le file di noi giovani caballari serpeggiava il malumore: ci aspettavamo epiche battaglie nelle sconfinate pianure… Invece gli unici morti che vedemmo, furono quei pochi del nostro esercito che si erano ammalati durante il viaggio.
Succede sempre… Negli anni passati al servizio del Re ho visto morire tanti uomini per la fatica o gli incidenti della marcia… Prima ancora di avvistare il nemico.
Ma anche i “capi” erano scontenti della situazione. Dovevamo congiungerci il prima possibile con gli altri due contingenti provenienti da settentrione e non potevamo perdere tempo con una fortezza di confine.
Allora dissi “prendiamola con la forza!”… e lo facemmo! – esclamò RAZO tutto esaltato.

I presenti, impressionati, lo guardarono con ammirazione… Mentre il SERVO ARMATO (Riccardo Guercini)  non osò contraddire, ma scosse la testa e lanciò al padrone un’occhiata di rimprovero.

RAZO (Dario Ceppatelli): – Bhe… Lo disse Re Pipino… – precisò il dominus – …Ma io l’avevo pensato prima di tutti!
Comunque sia – tagliò corto – scegliemmo la via più rapida. Anche se prendere d’assalto una fortificazione è rischioso, facemmo “due conti” e considerammo di essere dieci volte più di loro e di avere a disposizione migliaia di frecce.
I cavalli sono inutili contro una palizzata, quindi scendemmo dalle selle e ci schierammo in un possente muro di scudi che riusciva quasi del tutto a circondare l’intera fortezza.
Il Re provò a far ragionare i nemici: come di consuetudine chiese di parlare con chi comandava all’interno e propose il “via libera” se si fossero arresi e avessero lasciato il castello… Le solite cose che si dicono in certi casi… Ovviamente non accettarono e in tutta risposta scagliarono una freccia che si conficcò a pochi passi dagli zoccoli del cavallo del Re.
Pipino si aspettava una risposta del genere. Si strinse nelle spalle e, per niente deluso, tornò tra le sue file.
“Uomini!” ci disse passando in rassegna tutto lo schieramento piazzato poco al di là della portata degli archi nemici “Come avete visto, da buon cristiano, ho fatto tutto il possibile per evitare spargimenti di sangue. Ma quegli animali senza Dio preferiscono rimanere rintanati nell’ombra della loro palizzata” “codardi!” si udì una voce da un punto della schiera. “Si riparano dietro gli idoli dei loro falsi dei” continuò il Re “Non sanno che li aspetta l’inferno… E un assaggio di quell’inferno glielo faremo provare noi!”.
Un boato si alzò dalla nostra schiera… Un enorme ruggito di migliaia di uomini che lanciavano urla di sfida e battevano gli scudi.
Il Re fece un cenno per riprendere la parola, aspettò che il clamore fosse passato, e riprese: “Hanno avuto la loro occasione di salvarsi ma l’hanno buttata al vento… Beh… Non sanno con chi hanno a che fare!”, un’altro boato scaturi dalle nostre fila. “I migliori guerrieri che Dio abbia mai visto, guerrieri di tante nazioni valorose. Tutti uniti sulla giusta via, per portare la luce laddove regnano le tenebre! E allora dunque, miei valorosi, serrate i ranghi, sguainate le armi…e seguitemi verso la gloria!!!”
A quel punto, esaltati e galvanizzati da quelle parole, marciammo schierati verso il nemico cantando e lanciando urla di sfida.
Le prime frecce volarono dagli spalti. Noi alzammo gli scudi ma eravamo ancora troppo lontani. Alcune ci raggiunsero ma finirono la loro corsa nel cuoio e nel legno.
Appena fummo alla distanza giusta, anche i nostri arcieri iniziarono a saettare. Cercavano di colpire i loro arcieri, ma questi facevano capolino dalla palizzata solo il tempo necessario a scagliare una freccia e, subito, si rintanavano al sicuro. Era difficile trovare e abbattere un bersaglio, e dopo poco tempo c’erano già tante nostre frecce inutilmente piantate nei tronchi della palizzata.
Il modo migliore per espugnare una fortezza come quella è appiccare il fuoco alla palizzata e aspettare che si apra una breccia.

VILLICO (Vittorio Fronza): – avete usato le frecce infuocate? – chiese un villico ormai preso dal racconto.

RAZO (Dario Ceppatelli): – No! Che idiozia… – rispose scandalizzato il dominus.
– la pece o l’olio necessari a rendere efficace una tale arma costano tantissimo e, comunque, non ne basterebbero diecimila per far prendere fuoco ai tronchi della palizzata. No, l’unico modo possibile è quello di avvicinarsi alla base della fortificazione, cospargerla con un materiale infiammabile come olio, sego ecc. e, solo allora, accendere il fuoco con torce o fascine. Ma non credere che “quelli dentro” stiano lì a guardare… Mentre ti dai da fare con olio e fascine, dall’alto ti arriva di tutto: frecce, lance, pietre, rifiuti, tronchi di legno; senza rammentare che, quelli dentro, cercheranno in tutti i modi di spegnere l’incendio con sabbia, liquami… Con qualsiasi cosa.

VILLICO (Vittorio Fronza): – E allora… Come siete riusciti? –

RAZO (Dario Ceppatelli): – Nell’unico modo possibile: col sudore e col sangue!
Avevamo a disposizione un paio di ingegneri che costruirono quattro petriere. Ma il lancio delle loro pietre non si dimostrò molto efficace. Dovemmo impegnarci e sporcarci…
Per fortuna eravamo abbastanza ben organizzati.
Sentite come facemmo!
Un grosso gruppo di noi, quelli più valorosi, più forti e meglio armati, tra i quali mi trovavo io, protetti dagli scudi si avvicinarono alla palizzata. Tra di noi, sotto i nostri scudi, c’erano gli zappatori armati di fascine, torce, olio e tutto quello che serve per appiccare fuoco.
Contemporaneamente gli altri del nostro esercito, armati di arco e frecce, prendevano di mira i nemici sugli spalti per impedirgli di essere efficaci su di noi.
In quel caso usammo anche qualche freccia incendiaria… Ma era indirizzata verso l’interno della palizzata, con la speranza che cadesse su un tetto (e allora in quel caso funziona bene) e desse fuoco alla paglia. Questo per creare scompiglio tra i nemici e dargli altre “gatte da pelare”, con la speranza che distolgano, almeno un po’, l’attenzione dalla palizzata.
Detto così sembra facile… In realtà i problemi furono tanti; e alcuni di noi ci persero le penne!
Per avvicinarsi dovevamo superare un piccolo fossato e risalire un terrapieno erboso…Ed è difficile mantenere la formazione mentre si scivola e si saltano gli ostacoli.
Così, ogni volta che si apriva un varco nella formazione, una freccia arrivava a segno… Erano dei serpenti con l’arco… maledetti loro!
Prima di arrivare al fossato, un uomo accanto a me si beccò una freccia nella coscia. Sopravvisse, ma ancora oggi cammina zoppicando.
Spesso sentivo un tonfo sordo sullo scudo e vedevo una punta metallica comparire, come per incanto, all’interno: segno che qualche bastardo mi aveva preso di mira!
Mentre ci aprivamo per far passare gli zappatori che riempivano, con sacchi pieni di terra e fascine, il piccolo fossato di fronte a noi, una freccia si portava via qualche vita o rendeva inoffensivo un combattente.
Alcuni avevano asticelle piantate nelle carni, ma continuavano lo stesso a combattere sforzandosi di non pensare al dolore. Chi indossava la brunia era avvantaggiato: la maggior parte della frecce non riusciva a penetrare le scaglie. Ma per quelli, come me, che si proteggevano solo con elmo e scudo era un grosso problema…
Le frecce sono micidiali… Se te le tirano da vicino non le vedi arrivare…. Puoi solo rannicchiarti dietro lo scudo e sperare che un arciere più bastardo degli altri non trovi un varco.
Una mi prese in pieno sull’elmo… Fu un colpo secco, non mi accorsi neanche da dove era arrivata. Fortuna che il ferro resse… E oggi sono qui a raccontarvelo.
Comunque sia, avanzavamo il più veloce possibile verso la palizzata. Tra noi e l’obbiettivo c’era ancora un corto pendio in salita, un terrapieno, facile da risalire in tempi normali… Ma terrificante in tempo di guerra! Oltre alle frecce, eravamo entrati nel raggio d’azione dei lanci di pietre. e nonostante i nostri commilitoni armati di arco e schierati poco lontano ci fornissero tutto l’aiuto possibile, dagli spalti i nemici “vomitavano” di tutto.
Quei pochi passi in salita fecero più vittime dell’intera guerra.
Eravamo arrivati vicini alla palizzata e l’angolo del tiro nemico era quasi verticale. Io, e quelli che si trovavano al centro dello schieramento con me, avevamo gli scudi sulla testa. Quei disgraziati che si trovavano sui fianchi dovevano proteggersi anche dalle frecce che arrivavano dalle torri di legno costruite lungo la cortina difensiva.
Stavamo quasi per soccombere ma il nostro Re aveva mandato altri gruppi d’assalto ad attaccare più punti della palizzata. Vidi, sulla sinistra, una scara formata da valorosi longobardi – il dominus rivolse un inchino agli ospiti, che ricambiarono annuendo con un sorriso – avvicinarsi ad una torre e scagliare frecce, condite con insulti, agli arcieri nemici che si sporgevano per meglio bersagliarci. Questi, quando videro i volti barbuti e sentirono fischiare le punte acuminate, si rintanarono dietro la palizzata lasciandoci un po’ di respiro.
A questo punto, il mio signore, che comandava la nostra scara ruggì rivolto agli zappatori: “forza con quelle fascine!”. Dal nostro schieramento, quindi, vennero scagliate fascine imbevute d’olio e olle piene di unguenti infiammabili, che al contatto con la parete si disintegrarono spargendo il liquido. Subito dopo da dietro le linee vennero lanciate delle torce accese. Una mi passò proprio sulla testa e la vidi cadere esattamente ai piedi di uno dei grossi tronchi della palizzata. Il legno unto sfrigolò e immediatamente si liberò una fiammata che avvolse la parete per una larghezza di diversi passi.
Ci ritirammo momentaneamente per lasciar lavorare il fuoco e vedemmo che anche da altri punti della cortina muraria si innalzavano colonne di fumo. Mi accorsi solo allora di avere un buon numero di frecce piantate nello scudo, e un paio si erano impigliate nel mantello di spessa lana che portavo sulle spalle. Ma, a parte il fiato corto, il braccio sinistro dolorante, qualche escoriazione tipica del combattimento in formazione chiusa e una piccola ammaccatura sull’elmo, ero uscito incolume da quell’inferno.
Purtroppo non era andata così bene a molti dei  miei commilitoni. Molti erano stati colpiti, avevano frecce nelle carni, alcuni di loro di salvarono e guarirono in seguito, altri morirono per avvelenamento del sangue giorni dopo, altri ancora non lasciarono mai quel campo di battaglia.
Grimoaldo di Montelonti morì lì, qualcuno di voi l’ha conosciuto – disse Razo rivolto ai presenti – e Ulfo, quello da cui compriamo le barre di ferro, ci rimise un’occhio. –

VILLICO (Vittorio Fronza): – Ah … Ecco perchè è orbo –

RAZO (Dario Ceppatelli): – Certo… Per questo tutte le volte ci fa un buon prezzo nonostante debba arrivare qua dalla Val di Merse. Perchè eravamo compagni d’arme!
Comunque, tornando agli avari…
I nemici cercavano di spegnere le fiamme, con sabbia, secchi di terra e liquami, ma venivano bersagliati dai nostri arcieri. Il terrore si era insinuato tra di loro.
La palizzata ancora resisteva, ma noi non avevamo fretta… Ci limitavamo ad alzare gli scudi ogni qualvolta un arciere, sempre più raramente, ci scagliava contro una freccia.
Solitamente, a questo punto le persone con un po’ di buon senso si dovrebbero arrendere e sperare nella magnanimità del Re… Ma quelli niente! Si ostinavano a sfidarci e lanciare qualche freccia mentre cercavano di spegnere l’incendio.
Fatica inutile: la poltiglia che avevamo sparso sul legno non è facile da spegnere.
Sicuramente, nel frattempo, si stavano innalzando barricate improvvisate all’interno dell’insediamento, perchè di lì  a poco avremmo imboccato la breccia e portato la devastazione… E loro lo sapevano.
All’improvviso, con uno sgretolìo la porzione di palizzata collassò alzando un nuvolone di fuliggine. Istintivamente sguainammo le spade (chi ce l’aveva) e aspettammo l’ordine di assaltare.
L’ordine giunse con un grugnito… Muovemmo in massa stringendoci in un cuneo per poter passare dalla breccia.
Il varco praticabile era largo solo qualche passo ed era pieno di fumo, pezzi di legno infuocati e carboni ardenti, ma non rallentammo l’andatura.
Io mi trovai, come sempre, incima al gruppo, al fianco del mio signore –

…Il SERVO ARMATO (Riccardo Guercini) alzò gli occhi al cielo scuotendo la testa…

RAZO (Dario Ceppatelli): – Non c’era più nessuno sugli spalti a scagliarci frecce, quindi procedemmo di corsa fino quasi alla breccia. Ma il fumo e le fiamme ci impedivano di vedere bene al di là. Ci fermammo per qualche istante e capimmo che un tronco, annerito e mezzo mangiato dal fuoco, era rimasto di traverso qualche passo dentro l’apertura. Una trappola pericolosissima per un gruppo di guerrieri lanciati in corsa… Fu allora che il mio signore si fece portare un rampino attaccato ad un lungo canapo e mi disse: “Ragazzo, te che sei giovine, infilati nella breccia e aggancia questo rampino a quel legno traverso, noi abbatteremo con le frecce qualsiasi nemico abbia l’ardire di avvicinarti.”.
Il mio signore era un vecchio guerriero pieno di cicatrici, la forza di un toro e il coraggio di un leone. Aveva partecipato alle prime campagne contro i sassoni coprendosi di gloria e godeva della stima di Re Carlo. Avrei fatto qualsiasi cosa mi ordinasse e così feci… Senza indugiare… Senza pensare!
Soprattutto senza pensare che al di la del fumo i nostri arcieri non avrebbero potuto prendere la mira e abbattere i nemici che certamente sarebbero arrivati a frotte contro di me.
Alzai lo scudo, mi ci acquattai dietro con gli occhi che scrutavano da sopra il bordo, rinfoderai la spada, afferrai il rampino e mi buttai a capofitto… Saltai il fuoco, che ancora era abbastanza alto, come si fa da ragazzi per San Giovanni, e in un balzo ero al legno traverso. L’agganciai e mi spostai di lato perchè gli zappatori, da fuori, potessero tirarlo via.
In quel momento il fumo si diradò e rimasi impietrito…
Cento guerrieri nemici si trovavano a pochi passi da me –

Nella grande casa padronale, tutti gli astanti seguivano il racconto di Razo, senza fiatare ma… il servo armato tossì forzatamente.

RAZO (Dario Ceppatelli):  – Va beh, Urso… Saranno stati cinquanta… –

SERVO ARMATO (Riccardo Guercini): – Aumentano di numero ogni volta che la racconti… – disse, e subito si pentì di averlo fatto.

Il dominus lanciò al servo un occhiata glaciale che lo fulminò!

SERVO ARMATO (Riccardo Guercini): – Comunque erano grossi come giganti e coperti di ferro – precisò il servo guardando il suo padrone con occhio implorante…

RAZO (Dario Ceppatelli): – Dicevamo… Erano una cinquantina, ed io ero da solo. – Riprese il dominus. – L’unica cosa che mi venne in mente di fare era gridargli in faccia un urlo di sfida. Lo feci sguainando la spada… Rimasero fermi, impalati. Forse erano più sorpresi di me.
Ma un attimo dopo il primo si fece avanti, quello che era alla mia destra, il più vicino… Si scagliò in avanti con la lancia. Deviai la punta acuminata con la lama della spada e salvai per un soffio la mia gamba destra. Istantaneamente abbattei il bordo dello scudo sulla mano avanzata del nemico che abbassò la guardia qual tanto che bastò perchè eseguissi un affondo di punta rovescia alla sua gola. Trovai carne morbida e spinsi l’acciaio… Un fiotto di sangue bagnò il terreno e l’àvaro si accasciò su dei tronchi infuocati, alimentando le fiamme e mandando scintille.
Ero giovane, ero forte, ero veloce ed avevo spazzato via il mio primo nemico. Ero anche preda  di quella euforìa che ti prende nel mezzo della battaglia e che i guerrieri conoscono bene.
Volevo altro sangue e l’avrei preso dal primo nemico a portata del mio braccio.
Istantaneamente sferrai un poderoso colpo su uno scudo àvaro che arretrò. Un’altro venne avanti e si ritrovò la lancia tagliata in due dalla mia lama.
In un attimo ero al centro di un vortice di ferro, legno e cuoio… Non ricordo esattamente i colpi dati e ricevuti… Ricordo solo che ero certo che ci avrei lasciato le penne, ma che avrei portato con me un numero impressionante di nemici.
Fortunatamente, dopo qualche battito di cuore che a me sembrò un’eternità, dalla breccia si riversò all’interno un fiume di guerrieri franchi che travolsero il gruppetto di nemici. Alcuni fuggirono tra le capanne, ma vennero stanati e uccisi.
Piano, piano, un gran numero di miei commilitoni attraversarono la breccia…
In un attimo la fortezza cadde.
Io rimasi lì, a pochi passi dal varco, con il fiato corto. Quando riordinai le idee vidi che lo scudo era a pezzi, l’umbone era ammaccato, così come il mio elmo. Avevo il mantello strappato in più punti e le nocche della mano destra sanguinanti perchè, mi ricordai, avevo sferrato un pugno su uno scudo nemico nel tentativo di colpire la testa che c’era dietro.
Ma tutto sommato mi era andata bene!
Intanto gli altri stavano saccheggiando l’insediamento. Le donne e i bambini vennero catturati e resi schiavi. I vecchi e i guerrieri che non erano fuggiti vennero passati a fil di spada … E io? Cosa aspettavo? Mi unii al saccheggio finche non calarono le tenebre e non tornammo all’accampamento.
Per la mia impresa ebbi in cambio buone parole da Re Pipino e un grande dono dal mio signore… sapete quale? –

Razo si guardò intorno e indicò in tutte le direzioni.

RAZO (Dario Ceppatelli): – Questa casa e la curtis che voi lavorate così bene… –
– Ma la guerra non era ancora finita – continuò il dominus – Anzi, era appena cominciata… Tuttavia non trovammo resistenza. Le fortezze lungo il confine cadevano come spighe di grano sotto la falce del contadino.
Ci ricongiungemmo agli altri due contingenti, carichi di gloria e di tanti racconti.
Fu in quella occasione che vidi Re Carlo.
Ripartiti da quell’accampamento la guerra andò avanti.
Percorremmo gli immensi spazi di quella regione pianeggiante cercando di raggiungere il nemico. Ma gli avari rifiutavano lo scontro, anzi, fuggivano lasciandosi dietro solo capanne bruciate e granai svuotati. Andammo avanti così per qualche mese e, in effetti, erano più gli uomini che morivano per la marcia che per le frecce.
Quei codardi avevano paura!
Re Carlo decise che ne aveva abbastanza. Inoltre l’inverno si avvicinava e rischiavamo di rimanere impantanati in quelle lande dimenticate da Dio. Riprendemmo la strada di casa e ognuno tornò nelle proprie terre carico di gloria e di bottino.

VILLICO (Vittorio Fronza): – E i terrificanti cavalieri? E le loro lunghe lance? Che fine avevano fatto? –

RAZO: -Ti dico una cosa: menzogne! I leggendari guerrieri avari erano in realtà dei codardi paurosi, nessuno di loro era degno del nome che si erano fatti.
E chi va in giro raccontando della loro ferocia è solo un fifone!

Gli ospiti longobardi, improvvisamente, cambiarono espressione del volto… Alcuni mugugnarono dissenso. Uno di loro prese la parola:

GISALPRANDO (Gabriele Zorzi): – Le tue parole non sono esatte quando parli di quel popolo… Forse ti sei lasciato prendere dall’enfasi del racconto, ma tra la mia gente si dicono cose diverse. –

Il dominus, sorpreso e irritato da quelle parole si rivolse all’ospite:

RAZO (Dario Ceppatelli):- Insinui forse che sono un bugiardo? –

GISALPRANDO (Gabriele Zorzi): – La mia educazione mi impedisce di dare del bugiardo ad un signore che mi ospita nella sua dimora… –

RAZO (Dario Ceppatelli): – Ma il senso è proprio questo… A volte, però, si deve essere in grado di sostenere le proprie parole con le azioni! – Razo si alzò e mise mano allo scramasax.

Anche il longobardo si alzò… lentamente. Si parò davanti al dominus e, siccome era più alto di almeno due spanne, in effetti lo sovrastò.
Razo non era più tanto sicuro di se ma, l’orgoglio è tutto, non arretrò di un passo e non perse la sua espressione di sfida.
Per un lungo attimo, l’aria nella grande casa si fece pesante… Nessuno fiatava.
Poi il cilleraio (Marco Valenti) intervenne per calmare gli animi.

CILLERAIO (Marco Valenti): – Miei signori… Siete due valorosi guerrieri e so che il sangue che scorre nelle vostre vene è facile a pigliar fuoco. Ma il raccolto è andato bene, come non succede da anni, e sarebbe un peccato che un’inezia rovini questo lieto giorno.
Orsù, allontanate le mani dalle armi e tornate a godere della compagnia reciproca -.

I due sembrarono distendersi, tornarono a sedere, e Razo, da buon padrone di casa, fece un gesto di conciliazione:

RAZO (Dario Ceppatelli): – Dunque, amico mio, dimmi perchè, secondo te, avrei “sbagliato a giudicare quel popolo”-

GISALPRANDO (Gabriele Zorzi): – Te lo dirò volentieri, poiché la mia gente ebbe a conoscere molto da vicino gli avari… e molti di noi ne soffrirono enormemente… –

Il longobardo, dopo una sorsata di birra iniziò a raccontare la sua storia.

«… Gli Avari poi, scorso l’intero Friuli e messo a fuoco e a ruba ogni cosa, strinsero d’assedio la città di Cividale, cercando con tutte le loro forze di espugnarla,. Ora avvenne che, mentre il loro re Cacano girava con gran seguito di armati intorno alle mura,  per esplorare il sito e per vedere da che parte potesse più facilmente attaccare la città, Romilda lo adocchiasse dall’alto delle mura; e, vedendo, quell’infame bagascia, ch’egli era nel fiore dell’età giovanile, da libidine accesa, gli mandò a dire, tramite un messaggero, che, se avesse acconsentito a prenderla in moglie, ella gli avrebbe consegnato la città con tutti quelli che v’erano dentro. Ciò udito, il re barbaro, con un malizioso inganno, non solo promise, ma addirittura giurò di secondarla e di farla sua sposa; ond’ella, senza frapporre indugi, aprì le porte della città e, per disgrazia sua e di tutta la gente ivi raccolta, fece entrare il nemico. Entrarono gli Avari con il loro re e devastarono e rubarono tutto ciò che riuscirono a trovare: e poi, data la città stessa alle fiamme, trascinarono schiavi quanti ivi presero, falsamente promettendo ai medesimi, tuttavia, che li avrebbero riportati nei territori della Pannonia  donde erano usciti (“Hist. Lang.”, IV, 38).

Il racconto di Paolo Diacono continua con il ritorno degli Avari alle loro sedi e con il disegno di uccidere tutti i maschi maggiorenni. Accortisi di ciò, i quattro figli di Gisulfo, che erano fra i prigionieri, riuscirono a fuggire. Il piccolo Grimoaldo però fu raggiunto da un Avaro e ripreso:;il giovinetto non si perse d’animo, uccise il suo carceriere e riuscì a riunirsi ai fratelli. Ma fu Romilda, sempre secondo lo storico longobardo, a pagare più di tutti e in modo feroce e barbaro per il suo tradimento. Il re degli Avari, dopo aver trascorsa una notte con lei, la lasciò alle voglie di dodici dei suoi e quindi “fatto piantare u palo in mezzo al campo, comandò che fosse infilzata per la punta del medesimo aggiungendo inoltre queste ingiuriose parole: “Ecco il marito che fa per te!”. Così la malvagia traditrice della patria s’ebbe questa fine, lei, che pensò piuttosto alla propria libidine che alla salvezza dei cittadini e dei famigliari” (“Hist. Lang.”, IV, 38). Ma le figlie di Romilda seppero riscattare l’onore delle donne longobarde, sottraendosi alle cupidigie degli Avari con uno strattagemma: nascosero, sotto le vesti, della carne che, putrefatta dal caldo, cominciò ad emanare un tale fetore da tener lontano il pretendente più acceso.

Lupari e Vualeperga con i musici suonano e cantano.

Finito tutti escono.

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