4. Storytellinga – I fatti che inseriamo
La narrazione di Dario Ceppatelli sulla guerra ai Sassoni ed agli Avari attinge soprattutto a Alessandro Barbero, Carlo Magno. Un padre dell’Europa, Storia e Società, Bari, 2000. Gianni Granzotto, Carlo Magno, Milano 1998. Franco Cardini, Carlo Magno. Un padre della patria europea, Bompiani, 2002.
I Bavari, costretti da Pipino a riconoscersi tributari dei Franchi, guidati dal loro duca Tassilone, sposo di Liutberga, figlia di Desiderio, si erano alleati con gli Avari e con Arechi, mantenendo un atteggiamento ostile contro i Franchi. Nel 787 Carlo Magno mosse contro Tassilone che, abbandonato dai suoi, si arrese; condannato per fellonia, dovette abdicare e la Baviera fu incorporata al regno carolingio e divisa in contee rette da Franchi. Restava aperto il problema degli Avari, che, già alleati dei Burgundi, compivano scorrerie in Baviera e in Italia. Più che a sottometterli Carlo Magno mirava a spezzare la loro unità politico-militare con le popolazioni slave per dare sicurezza alle frontiere orientali. Nel 791 Carlo Magno iniziò le operazioni militari. Contemporaneamente il figlio Pipino, penetrato in Pannonia, assaliva e sconfiggeva gli Avari (23 agosto 791) e continuava poi le operazioni, lunghe e difficili, fino al 795, quando riusciva a espugnare il Ring avaro (campo trincerato circolare posto tra il Tibisco e il Danubio) dove era ammassato il tesoro del nemico. Gli Avari in parte si sottomisero e in parte fuggirono. Ribellatisi l’anno seguente, furono di nuovo sconfitti; il Ring venne demolito e fu creata la Marca Avarica, da cui sorgerà il Ducato d’Austria.
Quella contro i Sassoni fu la più difficile e lunga impresa di Carlo Magno e durònell’insieme 32 anni (dal 772 all’804). Gli anni dal 781 al 785 furono i più difficili della guerra: nel parossismo della lotta Carlo Magno emise il capitolareDe partibus Saxoniae, in cui imponeva ai Sassoni, sotto pena di morte, di convertirsi al cristianesimo e di farsi battezzare. I Sassoni risposero con rinnovato impeto guerresco e Carlo Magno dovette rimanere al campo anche d’inverno; battaglie cruentissime si accesero a Detmold e sulla Haase; a Verden il re si macchiò di una grave colpa facendo massacrare 4500 ribelli; pur di piegare l’ostinata resistenza mise tutto il Paese a ferro e a fuoco. Nel 785 il leader Vidukindo dovette arrendersi e si ritirò dalla lotta. Rimasero in armi i Sassoni dell’estuario dell’Elba, del Weser e della Nordalbingia. Nel 792, 793 e dal 795 al 799, quasi ininterrottamente, Carlo Magno condusse implacabili ed efferate spedizioni punitive; ma solo nell’804, deportando masse di Sassoni e affidando i loro territori a Franchi e Abodriti, riuscì a raggiungere il suo intento.
La narrazione (o lettura) di Dario Ceccherini sulla figura di Carlo Magno è tratta da Virginio Marrucci (a cura di), Eginardo. Vita di Carlo Magno, Salerno, 2006. E’ un Carlo attempato quello che si mette in scena; già incoronato imperatore ed impegnato negli studi e nella cura del corpo.
La narrazione di Gabriele Zorzi è relativa al 610 ed è basata sul quarto capitolo della «Historia Langobardorum» di Paolo Diacono.
Gli Avari invadono il Friuli, sconfiggono i Longobardi e uccidono il duca Gisulfo II, che cade in battaglia nel vano tentativo di difendere il suo territorio; subito dopo pongono l’assedio alla capitale, Cividale, sulle rive del fiume Natisone.
A Cividale si sono rifugiati la vedova del duca, Romilda, e un certo numero di persone non combattenti, soprattutto donne e bambini; le speranze di resistere sono poche, stante la schiacciante superiorità del nemico; per cui ben presto la duchessa decide di intavolare trattative e di addivenire a una resa patteggiata, forse con la promessa di risparmiare il saccheggio alla città e la riduzione in schiavitù degli abitanti.
Invece gli Avari, una volta entrati in Cividale, non risparmiarono né cose, né persone; rubano tutto ciò che trovano, incendiano la sventurata città e conducono via, schiavi, perfino i figli di Romilda, quattro maschi e quattro femmine; i primi riusciranno poi a fuggire dalla Pannonia e a tornare in Friuli, le seconde si sottraggono allo stupro con un’astuzia.
La loro madre, comunque, subisce la sorte peggiore: dopo essere stata torturata e violentata, a turno, da ben dodici guerrieri, viene impalata alla presenza del re nemico, Cacano, il quale, dopo averla posseduta per una notte, non si trattiene dallo schernirla con parole insultanti, mentre la condanna al tremendo supplizio.
b – Il ritorno di Razo dalla guerra
In quella sera, nell’anno del signore 804, una gran folla si era radunata nella casa padronale della curtis. Il dominus Razo era tornato dalla consueta campagna militare al servizio del Re e, come ogni anno, al suo ritorno, i servi, i contadini, i magistri… Tutti quelli che popolavano e lavoravano le terre erano ansiosi di sapere le notizie dal mondo.
Il dominus era particolarmente felice: dopo aver controllato i conti, appena tornato, e visitato il magazzino e il granaio, aveva appreso che il raccolto era andato particolarmente bene quell’anno, nelle botti riposava una gran quantità di vino che l’anno successivo sarebbe stato venduto a peso d’oro.
Gli animali dell’allevamento prosperavano e ingrassavano.
Si rammaricò della morte di due vecchi massari, ma gioì della nascita di sette bambini, due dai suoi servi e cinque dai contadini delle sue terre. Con un po’ di fortuna sarebbero sopravvissuti fino all’età giusta in cui sarebbero stati in grado di contribuire.
Per festeggiare, il cilleraio aveva invitato alcuni rappresentanti della famiglia di origini longobarde che dimorava a Staja, a poche ore di cammino verso meridione.
In attesa che il maialino venisse servito e si desse inizio al banchetto, il dominus e i suoi ospiti erano seduti nei pressi del focolare. Poco lontano i servi e i contadini, seduti e ammassati dove capitava fremevano perchè iniziasse il racconto e sognavano il momento in cui avrebbero addentato la loro parte di carne.
Il cilleraio si fece avanti:
CILLERAIO (Marco Valenti): – Allora dominus, quale paese hai visto stavolta, quali imprese hai compiuto ? –
RAZO (Dario Ceppatelli): – Dammi un buon boccale di idromele e ti racconto tutto -. La bevanda venne servita e il dominus iniziò a parlare: – Stavolta ho seguito Re Pipino fino in Sassonia. I sassoni non hanno mai accettato di buon grado la dominazione franca e l’anno scorso si sono ribellati… Noi siamo andati là per soffocare la ribellione…
…E ci siamo riusciti… Accidenti se ci siamo riusciti!
Re Carlo, anzi, ormai l’Imperatore Carlo, era proprio in collera. Anzi, era esasperato dalle continue ribellioni in quella regione. Poi, dopo aver perso due suoi amici per mano dei sassoni doveva dare una lezione a quei manigoldi.
Siamo piombati in forze su quei disgraziati e, in poco tempo, li abbiamo ridotti al silenzio.
Re Carlo, però, stavolta ha esagerato: ha fatto decapitare qualche migliaio di quei poveretti… E in alcuni casi ha dato l’esempio di persona. – Razo mima il gesto di decapitare qualcuno – . Noi guerrieri esperti siamo rimasti un po’ perplessi di fronte a quella violenza gratuita.
Intendiamoci: non mi faccio nessuno scrupolo a tagliare la testa ad un nemico… Ma così disarmati e inermi… C’erano anche donne e vecchi… Potevi salvarti solo se ti convertivi.
Chi, per grazia di Dio si è salvato, è stato deportato.
Un espressione di disgusto si disegnò sul volto del dominus.
RAZO (Dario Ceppatelli): – Sarà che di politica non ci capisco niente, ma secondo me non c’era bisogno di tanto orrore.
Eh no! Non è stata una bella campagna militare.
Niente se paragonata a quella di una decina di anni fa. Avevo già preso parte a qualche azione di guerra e a qualche campo di marte, ma quello fu il primo, vero, grande esercito a cui prendevo parte. Fu allora che incontrai il Re… Re Carlo intendo… per la prima volta.
VILLICO (Vittorio Fronza): stupito e ammirato – Davvero? e cosa ti disse? –
RAZO (Dario Ceppatelli): – Eh. Ah! mi disse… Mi disse… Niente, che volevi che mi dicesse?
Lo vidi passare a cavallo.
Un grand’uomo. Lo sguardo come di un leone e la mano destra, come artiglio d’aquila, impugnava la spada. –
MINISTERIALES (Dario Ceccherini): – So che è un grand’uomo! Qualche anno fà, durante un pellegrinaggio a Roma, ebbi la fortuna di incontrare Alcuino, una persona importante alla corte di Re Carlo, un’uomo molto vicino a lui. Ci parlai e gli chiesi di descrivere il Re. La descrizione mi colpì così tanto che decisi di fissare le sue parole con l’inchiostro… (tira fuori una pergamena arrotolata). Se avrete la pazienza di ascoltarmi ve le leggerò…
(inizia la lettura, riadattamento del ritratto di Carlo Magno scritto da Eginardo nella Vita di Carlo Magno; con alcune parti che di sicuro ha tratto da colloqui con Alcuino – nato nel 735 morto nell’804 – da carte di Alcuino)
Il re Carlo ha un corpo largo e robusto, statura alta, ma tuttavia non sproporzionata (la sua altezza misura sette volte il suo piede), la sommità del capo rotonda, gli occhi assai grandi e vivaci, il naso un po’ lungo del normale, una bella chioma bianca, un volto piacevole e gioviale, che gli conferisce un aspetto molto autorevole e dignitoso sia quando sta in piedi sia quando è seduto.
Sebbene il suo collo possa sembrare grasso e troppo corto, e il suo ventre alquanto prominente, tuttavia le misure proporzionalmente corrispondenti delle altre membra non fanno notare quei difetti. Ha ferma andatura e tutto l’atteggiamento del corpo virile, la voce è chiara, ma la meno adatta al suo aspetto fisico. Di salute buona, solo per quattro anni, è stato colto dalla febbre, e sta iniziando a zoppicare anche da un piede. E anche ora fa più come gli pare che come lo consigliano i medici, che gli sono praticamente odiosi, perchè lo esortano a smettere di mangiare arrosti. Pratica assiduamente l’equitazione e la caccia, esercizi che sono lui connaturati, perchè sulla terra non si trova forse alcun popolo che in quest’attività possa paragonarsi ai Franchi.
Gli piacciono anche i bagni di vapore di acque termali e spesso esercita il suo corpo nel nuoto, del quale è così esperto da non essere superato da alcuno. Anche per questo motivo ha costruito in Aquisgrana una reggia, nella quale abita ininterrottamente. E invita al bagno non solo i suoi figli, ma anche i nobili e gli amici, e qualche volta anche la folla dei soldati di scorta e delle guardie del corpo, cosicchè talora prendono il bagno insieme cento persone e anche di più.
Indossa il costume nazionale dei Franchi: a contatto del corpo porta una camicia di lino e mutande di lino; di sopra, una tunica orlata di seta e calzoni; poi avvolge le gambe con fascette e i piedi con calzari; d’invero protegge le spalle e il petto con un farsetto di pelle di lontra o di topo; indossa un mantello azzurro e cinge sempre una daga, che ha l’elsa e la bandoliera d’oro e d’argento. Talora si serve anche di una spada ornata di gemme, ma soltanto in occasione delle feste principali e dei ricevimenti di ambasciatori stranieri. Disdegna gl’indumenti forestieri, anche se sono bellissimi, non vuole mai vestirsene, tranne che a Roma, dove, una volta su richiesta di papa Adriano e un’altra per preghiera del suo successore Leone, ha indossato una tunica lunga e una clamide e si è messo anche scarpe di foggia romana. Nei giorni di festa va coperto di una veste ricamata d’oro, porta calzari adorni di gemme, ferma il mantello con una fibbia d’oro e si orna anche di un diadema d’oro e di pietre preziose; negli altri giorni, invece, il suo abbigliamento differisce poco da quello comune e popolare.
E’ moderato nel mangiare e nel bere, ma più moderato nel bere, tanto che ha in odio l’ubriachezza in qualsiasi uomo, non solo in sè e nei suoi. Mentre nel mangiare non riesce a fare altrettanto, e spesso si lamenta che i digiuni sono nocivi al suo fisico. Mangia a banchetto molto di rado, e questo solo nelle principali feste, allora però con un gran numero di persone. La cena di ogni giorno è di quattro portate, a parte l’arrosto, che i cacciatori sono soliti infilzare allo spiedo, e che egli mangia molto più volentieri di qualsiasi altro cibo. Mentre cena sta ad ascoltare qualche artista o lettore.
Gli vengono lette le storie e le gesta degli antichi. Gli piacciono anche i libri di sant’Agostino, soprattutto quelli intitolati La città di Dio. E’ così modesto nel bere, sia vino che altro, che durante la cena di rado beve più di tre volte. D’estate, dopo il pasto di mezzogiorno, prende un po’ di frutta e beve una volta sola, poi levatisi vesti e calzari, come è solito fare la notte, riposa per due o tre ore. La notte dorme poi interrompendo il sonno quattro o cinque volte, e non soltanto si sveglia, ma anche si alza dal letto. Mentre si alza o si veste, ammette alla sua presenza gli amici; se il conte di palazzo gli dice che c’è in corso qualche procedimento che non può essere definito senza il suo imperio, ordina di introdurre immediatamente i contendenti, come se sedesse in tribunale, e conosciuti i termini della disputa da la sua sentenza; e in quei momenti non solo sbriga cose del genere, ma anche qualsiasi ordine ci sia da dare a qualche subalterno.
E’ dotato di eloquio facile ed esuberante ed è capace di esprimere con la più grande chiarezza tutto ciò che voleva. Non contento di conoscere soltanto la propria lingua materna, si dedica anche allo studio delle lingue straniere, tra le quali ha appreso così bene la latina, che abitualmente si esprime con uguale padronanza in questa lingua o nella sua lingua materna, mentre la greca è in grado di capirla più che di parlarla.
E in verità ha una tale facilità di parola, da apparire un po’ prolisso.
Coltiva le arti liberali con grande passione, e poiché nutre una profonda venerazione per coloro che le insegnano, tributa loro grandi onori. Per lo studio della grammatica, ascolta le lezioni del diacono Pietro da Pisa; per le altre discipline ha come maestro Albino, detto Alcuino, anche lui diacono, un Sassone venuto dalla Bretagna, l’uomo più dotto in qualsiasi campo; sotto la sua guida spende moltissimo tempo e fatica nello studio della retorica, della dialettica e particolarmente dell’astronomia.
Si dedica all’apprendimento dell’arte del calcolo e con estrema curiosità indaga il corso degli astri, applicandovisi con la sua acuta intelligenza. Tenta anche di scrivere, e a questo scopo ha l’abitudine di spargere sotto i guanciali del suo letto tavolette e foglietti di pergamena, per abituare la mano a tracciare le lettere, quando ha un po’ di tempo libero; ma quest’applicazione, iniziata troppo tardi, ha poco successo. Pratica col più grande scrupolo e col più alto fervore la religione cristiana, nella quale è stato educato fin dall’infanzia.
Appunto per ciò ha innalzato in Aquisgrana una basilica di eccezionale bellezza, che ha adornato d’oro e d’argento, di lampadari e di balaustrate e porte di bronzo massiccio. Poichè non può procurarsi altrove le colonne e i marmi necessari alla sua costruzione li ha fatti trasportare da Roma e da Ravenna. Frequenta assiduamente la chiesa al mattino e alla sera, sia agli uffici notturni che alla messa, e cura molto che tutto quel che vi si celebra sia nel massimo decoro, ammonendo continuamente i custodi a non permettere che sia introdotto o rimanga nella chiesa mai nulla di indecoroso o riprovevole. Ha procurato alla basilica tale quantità di vasi sacri in oro e argento e di vesti sacerdotali, che neppure gli ostiari, che sono gli ultimi nella scala degli ordini ecclesiastici, hanno mai necessità, durante le messe, di celebrare senza abiti di cerimonia. Cura e perfeziona con grande zelo la disciplina delle letture e del canto. E’ infatti molto preparato in ambedue le arti, sebbene egli stesso non legga pubblicamente nè canti mai se non sommessamente e insieme con gli altri.
RAZO (Dario Ceppatelli): – Parole giuste e ben scritte! – disse il Dominus con sincera ammirazione – Ma io l’ho visto di persona… e sono sicuro che lui abbia visto me… o forse no… comunque ero lì!
Noi caballari eravamo schierati poco fuori da uno degli accampamenti nella Pianura Pannonica, nel territorio degli Avari, e il gran Re volle congratularsi con noi per aver conquistato alcune roccaforti nemiche. –
VILLICO (Vittorio Fronza): “Ma, perché? Non le aveva conquistate lui? Non comandava Lui l’esercito?”
RAZO (Dario Ceppatelli): “No, no… E ora vi spiego perché.
In quell’anno eravamo veramente tanti a marciare sotto le Insegne Reali. Molti popoli vi presero parte: Franchi, Turingi, Sassoni, Longobardi…
Re Carlo mosse guerra contro gli Avari, una nazione di cavalieri che vive a levante, nei grani spazi aperti della Pannonia. Si diceva che fossero un popolo temutissimo, guerrieri formidabili..
In sella ai loro cavalli, completamente coperti di ferro, erano capaci di travolgere qualsiasi nemico gli si parasse di fronte e trafiggerlo con le lunghe lance o infilzarlo con le migliaia di frecce che fanno cadere sulle schiere avversarie… Almeno così si diceva.
Avevamo paura, come è normale in guerra…
Noi però avevamo Carlo… Quella volpe…
Dovete sapere che la Pianura Pannonica è divisa in due dal grande fiume Danubio che la attraversa per tutta la sua lunghezza… –
SERVO ARMATO (Riccardo Guercini): “E’ più grosso dell’Elsa quando è in piena! Ma parrecchio!!!”
RAZO (Dario Ceppatelli): Guardò il suo servo e scosse la testa con rassegnazione.
– Dicevo… Questo fiume attraversa il territorio nemico. Così il Re divise il suo grande esercito in tre contingenti: uno avrebbe seguito il corso del fiume sulla sponda sinistra, a settentrione, l’altro, comandato dal Re in persona, l’avrebbe seguito sulla sponda destra, a meridione. Il terzo contingente, ai comandi del nostro Re d’Italia Pipino, sarebbe entrato nei territori Avari dal Friuli e avrebbe accerchiato l’esercito nemico.
Il mio signore faceva parte di questo contingente, ed io lo seguivo insieme ad altri exercitali pari miei. Al nostro fianco, oltre ad altri Franchi, marciavano i possenti guerrieri delle antiche famiglie longobarde che, come dissero loro, seguivano al contrario il sentiero che i loro avi percorsero quando arrivarono in Italia. –
Gli OSPITI LONGOBARDI sorrisero e annuirono in segno di assenso.
– Il luogo di incontro per tutti quelli che partecipavano sotto le insegne di Pipino, – riprese RAZO – era Civitas Austriae o, come la chiamano i suoi abitanti, Cividale capitale della Marca Orientale del Friuli.
VILLICO (Vittorio Fronza): “Cividale… Cividale… l’ho già sentita. Dev’essere in Val di Cecina, verso il mare…”.
RAZO (Dario Ceppatelli): – No, ignorante! Cividale è molto lontana, verso levante. Abbiamo viaggiato diversi giorni per arrivarci.
Prima lungo l’Elsa, fino all’Arno. Da lì, abbiamo fatto tappa a Lucca qualche giorno. Dovevamo aspettare che tutti i guerrieri della Marca di Tuscia convergessero su quella città, il vescovo ci ha benedetti e siamo ripartiti. Ci siamo incamminati per le valli che si incuneano negli Appennini, e li abbiamo valicati. Immaginatevi: una lunga fila di uomini, cavalli, buoi e carri che arrancavano faticosamente su per i sentieri montani.
Io ero con il gruppo di testa, molto vicino a Re Pipino (gongolando) e, quasi in cima al valico, mi sono voltato e… devo dire che mi sono emozionato… C’era un lungo serpentone, irto di lance, che mandava bagliori metallici… Un vero spettacolo!
La discesa è stata più semplice… E una volta giunti ai piedi dei monti, ci si sono aperti davanti i grandi spazi della Pianura Padana, da lì in poi la marcia è diventata più facile, i carri si muovevano meglio e più velocemente.
Riuscivamo a fare 10 miglia al giorno, ma solo perché andavamo al passo dei carri… sapete, tutto il bagaglio: le tende, i viveri, le armi di scorta.
Si, perché oltre alle armi che il Re ordina di avere su di se, spada, scramasax, scudo, elmo, lancia, arco con 12 frecce… ognuno di noi si era portato dietro i viveri bastanti per qualche mese. In questo modo l’esercito assomigliava ad una immensa carovana.
Giunti a Cividale ci unimmo agli altri del contingente del Regno d’Italia e ci preparammo per attraversare il confine.
Per entrare nel territorio degli Avari dovevamo attraversare un’altra catena montuosa… E stavolta con le armi pronte e ben affilate!
Io aprivo la strada! –
SERVO ARMATO (Riccardo Guercini): scosse la testa.
RAZO (Dario Ceppatelli): – Cioè, ero nel gruppo di testa. –
SERVO ARMATO (Riccardo Guercini): scosse la testa, di nuovo.
RAZO (Dario Ceppatelli): – Cioè, prima del gruppo dei caballari, dove mi trovavo, c’erano gli arcieri e gli zappatori che rimuovevano gli ostacoli…
E prima che me ne rendessi conto arrivammo alla frontiera. – disse il Dominus tagliando corto.
Mi aspettavo di vedere una schiera di cavalieri pieni di ferro che ci sbarravano la strada. Mi ero immaginato un muro di ferro e cuoio che ci sarebbe venuto incontro in un’epica battaglia campale. Avrei spronato il cavallo e mi sarei gettato a capofitto nella mischia, le lame avrebbero scintillato e mi sarei coperto di gloria…
…invece niente!
Non vedemmo nessuno. I sentieri erano liberi, le prime capanne che trovammo erano abbandonate.
Non avevano lasciato un chicco di grano.
Finché non arrivammo ad una fortezza. Aveva una bella palizzata robusta costruita in cima ad un terrapieno… ed era piena di guerrieri.
Gli Avari erano scesi da cavallo e si erano asserragliati.
Ci preparammo ad un lungo e noioso assedio. Ad attendere, per giorni, che “quelli dentro” uscissero, si arrendessero o morissero di fame.
Tra le file di noi giovani caballari serpeggiava il malumore: ci aspettavamo epiche battaglie nelle sconfinate pianure… Invece gli unici morti che vedemmo, furono quei pochi del nostro esercito che si erano ammalati durante il viaggio.
Succede sempre… Negli anni passati al servizio del Re ho visto morire tanti uomini per la fatica o gli incidenti della marcia… Prima ancora di avvistare il nemico.
Ma anche i “capi” erano scontenti della situazione. Dovevamo congiungerci il prima possibile con gli altri due contingenti provenienti da settentrione e non potevamo perdere tempo con una fortezza di confine.
Allora dissi “prendiamola con la forza!”… e lo facemmo! – esclamò RAZO tutto esaltato.
I presenti, impressionati, lo guardarono con ammirazione… Mentre il SERVO ARMATO (Riccardo Guercini) non osò contraddire, ma scosse la testa e lanciò al padrone un’occhiata di rimprovero.
RAZO (Dario Ceppatelli): – Bhe… Lo disse Re Pipino… – precisò il dominus – …Ma io l’avevo pensato prima di tutti!
Comunque sia – tagliò corto – scegliemmo la via più rapida. Anche se prendere d’assalto una fortificazione è rischioso, facemmo “due conti” e considerammo di essere dieci volte più di loro e di avere a disposizione migliaia di frecce.
I cavalli sono inutili contro una palizzata, quindi scendemmo dalle selle e ci schierammo in un possente muro di scudi che riusciva quasi del tutto a circondare l’intera fortezza.
Il Re provò a far ragionare i nemici: come di consuetudine chiese di parlare con chi comandava all’interno e propose il “via libera” se si fossero arresi e avessero lasciato il castello… Le solite cose che si dicono in certi casi… Ovviamente non accettarono e in tutta risposta scagliarono una freccia che si conficcò a pochi passi dagli zoccoli del cavallo del Re.
Pipino si aspettava una risposta del genere. Si strinse nelle spalle e, per niente deluso, tornò tra le sue file.
“Uomini!” ci disse passando in rassegna tutto lo schieramento piazzato poco al di là della portata degli archi nemici “Come avete visto, da buon cristiano, ho fatto tutto il possibile per evitare spargimenti di sangue. Ma quegli animali senza Dio preferiscono rimanere rintanati nell’ombra della loro palizzata” “codardi!” si udì una voce da un punto della schiera. “Si riparano dietro gli idoli dei loro falsi dei” continuò il Re “Non sanno che li aspetta l’inferno… E un assaggio di quell’inferno glielo faremo provare noi!”.
Un boato si alzò dalla nostra schiera… Un enorme ruggito di migliaia di uomini che lanciavano urla di sfida e battevano gli scudi.
Il Re fece un cenno per riprendere la parola, aspettò che il clamore fosse passato, e riprese: “Hanno avuto la loro occasione di salvarsi ma l’hanno buttata al vento… Beh… Non sanno con chi hanno a che fare!”, un’altro boato scaturi dalle nostre fila. “I migliori guerrieri che Dio abbia mai visto, guerrieri di tante nazioni valorose. Tutti uniti sulla giusta via, per portare la luce laddove regnano le tenebre! E allora dunque, miei valorosi, serrate i ranghi, sguainate le armi…e seguitemi verso la gloria!!!”
A quel punto, esaltati e galvanizzati da quelle parole, marciammo schierati verso il nemico cantando e lanciando urla di sfida.
Le prime frecce volarono dagli spalti. Noi alzammo gli scudi ma eravamo ancora troppo lontani. Alcune ci raggiunsero ma finirono la loro corsa nel cuoio e nel legno.
Appena fummo alla distanza giusta, anche i nostri arcieri iniziarono a saettare. Cercavano di colpire i loro arcieri, ma questi facevano capolino dalla palizzata solo il tempo necessario a scagliare una freccia e, subito, si rintanavano al sicuro. Era difficile trovare e abbattere un bersaglio, e dopo poco tempo c’erano già tante nostre frecce inutilmente piantate nei tronchi della palizzata.
Il modo migliore per espugnare una fortezza come quella è appiccare il fuoco alla palizzata e aspettare che si apra una breccia.
VILLICO (Vittorio Fronza): – avete usato le frecce infuocate? – chiese un villico ormai preso dal racconto.
RAZO (Dario Ceppatelli): – No! Che idiozia… – rispose scandalizzato il dominus.
– la pece o l’olio necessari a rendere efficace una tale arma costano tantissimo e, comunque, non ne basterebbero diecimila per far prendere fuoco ai tronchi della palizzata. No, l’unico modo possibile è quello di avvicinarsi alla base della fortificazione, cospargerla con un materiale infiammabile come olio, sego ecc. e, solo allora, accendere il fuoco con torce o fascine. Ma non credere che “quelli dentro” stiano lì a guardare… Mentre ti dai da fare con olio e fascine, dall’alto ti arriva di tutto: frecce, lance, pietre, rifiuti, tronchi di legno; senza rammentare che, quelli dentro, cercheranno in tutti i modi di spegnere l’incendio con sabbia, liquami… Con qualsiasi cosa.
VILLICO (Vittorio Fronza): – E allora… Come siete riusciti? –
RAZO (Dario Ceppatelli): – Nell’unico modo possibile: col sudore e col sangue!
Avevamo a disposizione un paio di ingegneri che costruirono quattro petriere. Ma il lancio delle loro pietre non si dimostrò molto efficace. Dovemmo impegnarci e sporcarci…
Per fortuna eravamo abbastanza ben organizzati.
Sentite come facemmo!
Un grosso gruppo di noi, quelli più valorosi, più forti e meglio armati, tra i quali mi trovavo io, protetti dagli scudi si avvicinarono alla palizzata. Tra di noi, sotto i nostri scudi, c’erano gli zappatori armati di fascine, torce, olio e tutto quello che serve per appiccare fuoco.
Contemporaneamente gli altri del nostro esercito, armati di arco e frecce, prendevano di mira i nemici sugli spalti per impedirgli di essere efficaci su di noi.
In quel caso usammo anche qualche freccia incendiaria… Ma era indirizzata verso l’interno della palizzata, con la speranza che cadesse su un tetto (e allora in quel caso funziona bene) e desse fuoco alla paglia. Questo per creare scompiglio tra i nemici e dargli altre “gatte da pelare”, con la speranza che distolgano, almeno un po’, l’attenzione dalla palizzata.
Detto così sembra facile… In realtà i problemi furono tanti; e alcuni di noi ci persero le penne!
Per avvicinarsi dovevamo superare un piccolo fossato e risalire un terrapieno erboso…Ed è difficile mantenere la formazione mentre si scivola e si saltano gli ostacoli.
Così, ogni volta che si apriva un varco nella formazione, una freccia arrivava a segno… Erano dei serpenti con l’arco… maledetti loro!
Prima di arrivare al fossato, un uomo accanto a me si beccò una freccia nella coscia. Sopravvisse, ma ancora oggi cammina zoppicando.
Spesso sentivo un tonfo sordo sullo scudo e vedevo una punta metallica comparire, come per incanto, all’interno: segno che qualche bastardo mi aveva preso di mira!
Mentre ci aprivamo per far passare gli zappatori che riempivano, con sacchi pieni di terra e fascine, il piccolo fossato di fronte a noi, una freccia si portava via qualche vita o rendeva inoffensivo un combattente.
Alcuni avevano asticelle piantate nelle carni, ma continuavano lo stesso a combattere sforzandosi di non pensare al dolore. Chi indossava la brunia era avvantaggiato: la maggior parte della frecce non riusciva a penetrare le scaglie. Ma per quelli, come me, che si proteggevano solo con elmo e scudo era un grosso problema…
Le frecce sono micidiali… Se te le tirano da vicino non le vedi arrivare…. Puoi solo rannicchiarti dietro lo scudo e sperare che un arciere più bastardo degli altri non trovi un varco.
Una mi prese in pieno sull’elmo… Fu un colpo secco, non mi accorsi neanche da dove era arrivata. Fortuna che il ferro resse… E oggi sono qui a raccontarvelo.
Comunque sia, avanzavamo il più veloce possibile verso la palizzata. Tra noi e l’obbiettivo c’era ancora un corto pendio in salita, un terrapieno, facile da risalire in tempi normali… Ma terrificante in tempo di guerra! Oltre alle frecce, eravamo entrati nel raggio d’azione dei lanci di pietre. e nonostante i nostri commilitoni armati di arco e schierati poco lontano ci fornissero tutto l’aiuto possibile, dagli spalti i nemici “vomitavano” di tutto.
Quei pochi passi in salita fecero più vittime dell’intera guerra.
Eravamo arrivati vicini alla palizzata e l’angolo del tiro nemico era quasi verticale. Io, e quelli che si trovavano al centro dello schieramento con me, avevamo gli scudi sulla testa. Quei disgraziati che si trovavano sui fianchi dovevano proteggersi anche dalle frecce che arrivavano dalle torri di legno costruite lungo la cortina difensiva.
Stavamo quasi per soccombere ma il nostro Re aveva mandato altri gruppi d’assalto ad attaccare più punti della palizzata. Vidi, sulla sinistra, una scara formata da valorosi longobardi – il dominus rivolse un inchino agli ospiti, che ricambiarono annuendo con un sorriso – avvicinarsi ad una torre e scagliare frecce, condite con insulti, agli arcieri nemici che si sporgevano per meglio bersagliarci. Questi, quando videro i volti barbuti e sentirono fischiare le punte acuminate, si rintanarono dietro la palizzata lasciandoci un po’ di respiro.
A questo punto, il mio signore, che comandava la nostra scara ruggì rivolto agli zappatori: “forza con quelle fascine!”. Dal nostro schieramento, quindi, vennero scagliate fascine imbevute d’olio e olle piene di unguenti infiammabili, che al contatto con la parete si disintegrarono spargendo il liquido. Subito dopo da dietro le linee vennero lanciate delle torce accese. Una mi passò proprio sulla testa e la vidi cadere esattamente ai piedi di uno dei grossi tronchi della palizzata. Il legno unto sfrigolò e immediatamente si liberò una fiammata che avvolse la parete per una larghezza di diversi passi.
Ci ritirammo momentaneamente per lasciar lavorare il fuoco e vedemmo che anche da altri punti della cortina muraria si innalzavano colonne di fumo. Mi accorsi solo allora di avere un buon numero di frecce piantate nello scudo, e un paio si erano impigliate nel mantello di spessa lana che portavo sulle spalle. Ma, a parte il fiato corto, il braccio sinistro dolorante, qualche escoriazione tipica del combattimento in formazione chiusa e una piccola ammaccatura sull’elmo, ero uscito incolume da quell’inferno.
Purtroppo non era andata così bene a molti dei miei commilitoni. Molti erano stati colpiti, avevano frecce nelle carni, alcuni di loro di salvarono e guarirono in seguito, altri morirono per avvelenamento del sangue giorni dopo, altri ancora non lasciarono mai quel campo di battaglia.
Grimoaldo di Montelonti morì lì, qualcuno di voi l’ha conosciuto – disse Razo rivolto ai presenti – e Ulfo, quello da cui compriamo le barre di ferro, ci rimise un’occhio. –
VILLICO (Vittorio Fronza): – Ah … Ecco perchè è orbo –
RAZO (Dario Ceppatelli): – Certo… Per questo tutte le volte ci fa un buon prezzo nonostante debba arrivare qua dalla Val di Merse. Perchè eravamo compagni d’arme!
Comunque, tornando agli avari…
I nemici cercavano di spegnere le fiamme, con sabbia, secchi di terra e liquami, ma venivano bersagliati dai nostri arcieri. Il terrore si era insinuato tra di loro.
La palizzata ancora resisteva, ma noi non avevamo fretta… Ci limitavamo ad alzare gli scudi ogni qualvolta un arciere, sempre più raramente, ci scagliava contro una freccia.
Solitamente, a questo punto le persone con un po’ di buon senso si dovrebbero arrendere e sperare nella magnanimità del Re… Ma quelli niente! Si ostinavano a sfidarci e lanciare qualche freccia mentre cercavano di spegnere l’incendio.
Fatica inutile: la poltiglia che avevamo sparso sul legno non è facile da spegnere.
Sicuramente, nel frattempo, si stavano innalzando barricate improvvisate all’interno dell’insediamento, perchè di lì a poco avremmo imboccato la breccia e portato la devastazione… E loro lo sapevano.
All’improvviso, con uno sgretolìo la porzione di palizzata collassò alzando un nuvolone di fuliggine. Istintivamente sguainammo le spade (chi ce l’aveva) e aspettammo l’ordine di assaltare.
L’ordine giunse con un grugnito… Muovemmo in massa stringendoci in un cuneo per poter passare dalla breccia.
Il varco praticabile era largo solo qualche passo ed era pieno di fumo, pezzi di legno infuocati e carboni ardenti, ma non rallentammo l’andatura.
Io mi trovai, come sempre, incima al gruppo, al fianco del mio signore –
…Il SERVO ARMATO (Riccardo Guercini) alzò gli occhi al cielo scuotendo la testa…
RAZO (Dario Ceppatelli): – Non c’era più nessuno sugli spalti a scagliarci frecce, quindi procedemmo di corsa fino quasi alla breccia. Ma il fumo e le fiamme ci impedivano di vedere bene al di là. Ci fermammo per qualche istante e capimmo che un tronco, annerito e mezzo mangiato dal fuoco, era rimasto di traverso qualche passo dentro l’apertura. Una trappola pericolosissima per un gruppo di guerrieri lanciati in corsa… Fu allora che il mio signore si fece portare un rampino attaccato ad un lungo canapo e mi disse: “Ragazzo, te che sei giovine, infilati nella breccia e aggancia questo rampino a quel legno traverso, noi abbatteremo con le frecce qualsiasi nemico abbia l’ardire di avvicinarti.”.
Il mio signore era un vecchio guerriero pieno di cicatrici, la forza di un toro e il coraggio di un leone. Aveva partecipato alle prime campagne contro i sassoni coprendosi di gloria e godeva della stima di Re Carlo. Avrei fatto qualsiasi cosa mi ordinasse e così feci… Senza indugiare… Senza pensare!
Soprattutto senza pensare che al di la del fumo i nostri arcieri non avrebbero potuto prendere la mira e abbattere i nemici che certamente sarebbero arrivati a frotte contro di me.
Alzai lo scudo, mi ci acquattai dietro con gli occhi che scrutavano da sopra il bordo, rinfoderai la spada, afferrai il rampino e mi buttai a capofitto… Saltai il fuoco, che ancora era abbastanza alto, come si fa da ragazzi per San Giovanni, e in un balzo ero al legno traverso. L’agganciai e mi spostai di lato perchè gli zappatori, da fuori, potessero tirarlo via.
In quel momento il fumo si diradò e rimasi impietrito…
Cento guerrieri nemici si trovavano a pochi passi da me –
Nella grande casa padronale, tutti gli astanti seguivano il racconto di Razo, senza fiatare ma… il servo armato tossì forzatamente.
RAZO (Dario Ceppatelli): – Va beh, Urso… Saranno stati cinquanta… –
SERVO ARMATO (Riccardo Guercini): – Aumentano di numero ogni volta che la racconti… – disse, e subito si pentì di averlo fatto.
Il dominus lanciò al servo un occhiata glaciale che lo fulminò!
SERVO ARMATO (Riccardo Guercini): – Comunque erano grossi come giganti e coperti di ferro – precisò il servo guardando il suo padrone con occhio implorante…
RAZO (Dario Ceppatelli): – Dicevamo… Erano una cinquantina, ed io ero da solo. – Riprese il dominus. – L’unica cosa che mi venne in mente di fare era gridargli in faccia un urlo di sfida. Lo feci sguainando la spada… Rimasero fermi, impalati. Forse erano più sorpresi di me.
Ma un attimo dopo il primo si fece avanti, quello che era alla mia destra, il più vicino… Si scagliò in avanti con la lancia. Deviai la punta acuminata con la lama della spada e salvai per un soffio la mia gamba destra. Istantaneamente abbattei il bordo dello scudo sulla mano avanzata del nemico che abbassò la guardia qual tanto che bastò perchè eseguissi un affondo di punta rovescia alla sua gola. Trovai carne morbida e spinsi l’acciaio… Un fiotto di sangue bagnò il terreno e l’àvaro si accasciò su dei tronchi infuocati, alimentando le fiamme e mandando scintille.
Ero giovane, ero forte, ero veloce ed avevo spazzato via il mio primo nemico. Ero anche preda di quella euforìa che ti prende nel mezzo della battaglia e che i guerrieri conoscono bene.
Volevo altro sangue e l’avrei preso dal primo nemico a portata del mio braccio.
Istantaneamente sferrai un poderoso colpo su uno scudo àvaro che arretrò. Un’altro venne avanti e si ritrovò la lancia tagliata in due dalla mia lama.
In un attimo ero al centro di un vortice di ferro, legno e cuoio… Non ricordo esattamente i colpi dati e ricevuti… Ricordo solo che ero certo che ci avrei lasciato le penne, ma che avrei portato con me un numero impressionante di nemici.
Fortunatamente, dopo qualche battito di cuore che a me sembrò un’eternità, dalla breccia si riversò all’interno un fiume di guerrieri franchi che travolsero il gruppetto di nemici. Alcuni fuggirono tra le capanne, ma vennero stanati e uccisi.
Piano, piano, un gran numero di miei commilitoni attraversarono la breccia…
In un attimo la fortezza cadde.
Io rimasi lì, a pochi passi dal varco, con il fiato corto. Quando riordinai le idee vidi che lo scudo era a pezzi, l’umbone era ammaccato, così come il mio elmo. Avevo il mantello strappato in più punti e le nocche della mano destra sanguinanti perchè, mi ricordai, avevo sferrato un pugno su uno scudo nemico nel tentativo di colpire la testa che c’era dietro.
Ma tutto sommato mi era andata bene!
Intanto gli altri stavano saccheggiando l’insediamento. Le donne e i bambini vennero catturati e resi schiavi. I vecchi e i guerrieri che non erano fuggiti vennero passati a fil di spada … E io? Cosa aspettavo? Mi unii al saccheggio finche non calarono le tenebre e non tornammo all’accampamento.
Per la mia impresa ebbi in cambio buone parole da Re Pipino e un grande dono dal mio signore… sapete quale? –
Razo si guardò intorno e indicò in tutte le direzioni.
RAZO (Dario Ceppatelli): – Questa casa e la curtis che voi lavorate così bene… –
– Ma la guerra non era ancora finita – continuò il dominus – Anzi, era appena cominciata… Tuttavia non trovammo resistenza. Le fortezze lungo il confine cadevano come spighe di grano sotto la falce del contadino.
Ci ricongiungemmo agli altri due contingenti, carichi di gloria e di tanti racconti.
Fu in quella occasione che vidi Re Carlo.
Ripartiti da quell’accampamento la guerra andò avanti.
Percorremmo gli immensi spazi di quella regione pianeggiante cercando di raggiungere il nemico. Ma gli avari rifiutavano lo scontro, anzi, fuggivano lasciandosi dietro solo capanne bruciate e granai svuotati. Andammo avanti così per qualche mese e, in effetti, erano più gli uomini che morivano per la marcia che per le frecce.
Quei codardi avevano paura!
Re Carlo decise che ne aveva abbastanza. Inoltre l’inverno si avvicinava e rischiavamo di rimanere impantanati in quelle lande dimenticate da Dio. Riprendemmo la strada di casa e ognuno tornò nelle proprie terre carico di gloria e di bottino.
VILLICO (Vittorio Fronza): – E i terrificanti cavalieri? E le loro lunghe lance? Che fine avevano fatto? –
RAZO: -Ti dico una cosa: menzogne! I leggendari guerrieri avari erano in realtà dei codardi paurosi, nessuno di loro era degno del nome che si erano fatti.
E chi va in giro raccontando della loro ferocia è solo un fifone!
Gli ospiti longobardi, improvvisamente, cambiarono espressione del volto… Alcuni mugugnarono dissenso. Uno di loro prese la parola:
GISALPRANDO (Gabriele Zorzi): – Le tue parole non sono esatte quando parli di quel popolo… Forse ti sei lasciato prendere dall’enfasi del racconto, ma tra la mia gente si dicono cose diverse. –
Il dominus, sorpreso e irritato da quelle parole si rivolse all’ospite:
RAZO (Dario Ceppatelli):- Insinui forse che sono un bugiardo? –
GISALPRANDO (Gabriele Zorzi): – La mia educazione mi impedisce di dare del bugiardo ad un signore che mi ospita nella sua dimora… –
RAZO (Dario Ceppatelli): – Ma il senso è proprio questo… A volte, però, si deve essere in grado di sostenere le proprie parole con le azioni! – Razo si alzò e mise mano allo scramasax.
Anche il longobardo si alzò… lentamente. Si parò davanti al dominus e, siccome era più alto di almeno due spanne, in effetti lo sovrastò.
Razo non era più tanto sicuro di se ma, l’orgoglio è tutto, non arretrò di un passo e non perse la sua espressione di sfida.
Per un lungo attimo, l’aria nella grande casa si fece pesante… Nessuno fiatava.
Poi il cilleraio (Marco Valenti) intervenne per calmare gli animi.
CILLERAIO (Marco Valenti): – Miei signori… Siete due valorosi guerrieri e so che il sangue che scorre nelle vostre vene è facile a pigliar fuoco. Ma il raccolto è andato bene, come non succede da anni, e sarebbe un peccato che un’inezia rovini questo lieto giorno.
Orsù, allontanate le mani dalle armi e tornate a godere della compagnia reciproca -.
I due sembrarono distendersi, tornarono a sedere, e Razo, da buon padrone di casa, fece un gesto di conciliazione:
RAZO (Dario Ceppatelli): – Dunque, amico mio, dimmi perchè, secondo te, avrei “sbagliato a giudicare quel popolo”-
GISALPRANDO (Gabriele Zorzi): – Te lo dirò volentieri, poiché la mia gente ebbe a conoscere molto da vicino gli avari… e molti di noi ne soffrirono enormemente… –
Il longobardo, dopo una sorsata di birra iniziò a raccontare la sua storia.
«… Gli Avari poi, scorso l’intero Friuli e messo a fuoco e a ruba ogni cosa, strinsero d’assedio la città di Cividale, cercando con tutte le loro forze di espugnarla,. Ora avvenne che, mentre il loro re Cacano girava con gran seguito di armati intorno alle mura, per esplorare il sito e per vedere da che parte potesse più facilmente attaccare la città, Romilda lo adocchiasse dall’alto delle mura; e, vedendo, quell’infame bagascia, ch’egli era nel fiore dell’età giovanile, da libidine accesa, gli mandò a dire, tramite un messaggero, che, se avesse acconsentito a prenderla in moglie, ella gli avrebbe consegnato la città con tutti quelli che v’erano dentro. Ciò udito, il re barbaro, con un malizioso inganno, non solo promise, ma addirittura giurò di secondarla e di farla sua sposa; ond’ella, senza frapporre indugi, aprì le porte della città e, per disgrazia sua e di tutta la gente ivi raccolta, fece entrare il nemico. Entrarono gli Avari con il loro re e devastarono e rubarono tutto ciò che riuscirono a trovare: e poi, data la città stessa alle fiamme, trascinarono schiavi quanti ivi presero, falsamente promettendo ai medesimi, tuttavia, che li avrebbero riportati nei territori della Pannonia donde erano usciti (“Hist. Lang.”, IV, 38).
Il racconto di Paolo Diacono continua con il ritorno degli Avari alle loro sedi e con il disegno di uccidere tutti i maschi maggiorenni. Accortisi di ciò, i quattro figli di Gisulfo, che erano fra i prigionieri, riuscirono a fuggire. Il piccolo Grimoaldo però fu raggiunto da un Avaro e ripreso:;il giovinetto non si perse d’animo, uccise il suo carceriere e riuscì a riunirsi ai fratelli. Ma fu Romilda, sempre secondo lo storico longobardo, a pagare più di tutti e in modo feroce e barbaro per il suo tradimento. Il re degli Avari, dopo aver trascorsa una notte con lei, la lasciò alle voglie di dodici dei suoi e quindi “fatto piantare u palo in mezzo al campo, comandò che fosse infilzata per la punta del medesimo aggiungendo inoltre queste ingiuriose parole: “Ecco il marito che fa per te!”. Così la malvagia traditrice della patria s’ebbe questa fine, lei, che pensò piuttosto alla propria libidine che alla salvezza dei cittadini e dei famigliari” (“Hist. Lang.”, IV, 38). Ma le figlie di Romilda seppero riscattare l’onore delle donne longobarde, sottraendosi alle cupidigie degli Avari con uno strattagemma: nascosero, sotto le vesti, della carne che, putrefatta dal caldo, cominciò ad emanare un tale fetore da tener lontano il pretendente più acceso.
Lupari e Vualeperga con i musici suonano e cantano.
Finito tutti escono. |